L'ANTICIPAZIONE
Il successo nel contrasto alla pandemia non sta tutto in un'unica

Domenica 17 Gennaio 2021
L'ANTICIPAZIONE
Il successo nel contrasto alla pandemia non sta tutto in un'unica misura, ma nella capacità di un paese di adottare quella che Tomas Pueyo ha chiamato strategia del formaggio svizzero (swiss cheese strategy), il celebre formaggio a buchi, simile alla nostra groviera tanto amata da Topo Gigio. L'idea è che, per impedire la formazione dell'onda, non basti un unico strato di formaggio (leggi: una particolare misura di contrasto), perché ogni strato ha dei buchi in cui l'epidemia può trovare un varco, ma occorra giustapporne più d'uno, alternandoli in modo che, dove uno strato non funziona, possa intervenire uno degli strati successivi, ciascuno con i suoi buchi sparpagliati in modo irregolare e casuale. Detto in altre parole: giudicata in sé ogni misura è insufficiente e lacunosa, ma è il pacchetto complessivo, una sorta di filtro multi-strato, che deve essere efficace.
I DIFETTI
In Europa il filtro aveva troppo pochi strati, e ogni strato aveva buchi troppo grandi. Per questo, a differenza dei paesi asiatici e di quelli dell'emisfero sud del mondo, il nostro numero di morti in Europa come nel resto dell'occidente è stato enormemente superiore.
Ma non è solo questo che ha fatto la differenza, e ancora oggi la fa. I paesi lontani dell'estremo oriente e dell'emisfero australe (dal Giappone alla Corea del Sud, dall'Australia alla Nuova Zelanda), avevano un'idea, un'idea che noi non abbiamo mai avuto. Un'idea semplice, che a noi o meglio ai nostri governanti deve essere sembrata troppo ambiziosa, o irrealistica, o incompatibile con la loro strenua ricerca del consenso.
Quale idea?
Che si dovesse, e si potesse, portare il numero di contagiati molto vicino a zero. A qualsiasi costo. Anche quello di imporre un lockdown durissimo, o limitare la privacy, o sorvegliare poliziescamente il rispetto della quarantena.
LA CONSEGUENZA
Questa impostazione aveva ed ha una conseguenza cruciale: abbassa drasticamente le soglie di allarme, ovvero il numero quotidiano di morti o di nuovi casi che consideriamo inaccettabili. Il che fa una differenza enorme, perché implica che si intervenga prima, molto prima. Non importa con quali strumenti, che possono andare dal confinamento ai tamponi di massa, dalla chiusura delle frontiere all'obbligo di indossare la mascherina: quel che conta è quando.
In Europa, qualche migliaio di casi positivi al giorno (per paesi delle dimensioni dell'Italia) non fanno nessuna impressione. In paesi come il Giappone, l'Australia o la Nuova Zelanda, al contrario, anche solo 10 o 100 casi al giorno sono sufficienti a far scattare l'allarme. Con una catena di conseguenze fondamentali: le misure di contrasto adottate sono immediate, il sistema di tracciamento non va in tilt, il numero di soggetti in grado di contagiare resta sempre una frazione minima della popolazione totale.
È l'esatto contrario dell'approccio europeo, e più in generale occidentale. Qui da noi l'obiettivo non è sradicare il virus, ma proteggere dal collasso il sistema sanitario. Di qui l'illusione che si possa permettere al numero di infetti di crescere senz'altro limite che il numero di posti letto negli ospedali. Vale per l'Italia, ma vale anche per la maggior parte degli altri paesi europei, compresa la Germania, almeno nella seconda ondata. Lì come in Francia, in Spagna, nel Regno Unito la reazione non è scattata nel momento in cui i nuovi casi e i decessi sono risultati troppo lontani da zero, bensì quando sono risultati troppo vicini al punto di saturazione dei rispettivi sistemi sanitari.
Sono due approcci completamente diversi. L'approccio dei paesi lontani mira a proteggere la salute, anche ma non necessariamente con il lockdown, e ha come sottoprodotto quello di tutelare l'economia, perché un basso numero di infetti spegne la paura, favorisce la mobilità, consente alle attività produttive di girare (quasi) a pieno regime. L'approccio europeo mira a tenere aperte le attività economiche fino a quando si profila all'orizzonte il disastro sanitario, ma invariabilmente innesca la stessa successione di conseguenze inintenzionali: più morti, più paura, nuovo lockdown, crisi dell'economia.
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Che dire, a questo punto?
Forse soltanto questo: cari politici, non nascondetevi dietro l'arrivo del vaccino. Non usatelo come alibi per non fare, ancora una volta, quel che andrebbe fatto. Perché anche le previsioni più ottimistiche, che ipotizzano una vaccinazione di massa entro l'estate, non possono dissolvere il nostro problema attuale, ossia come affrontare i mesi che verranno da qui alla fine della primavera, quando (forse) il caldo e la vita all'aperto ci daranno di nuovo una mano a tener testa al virus.
IL DANNO
In questo infelice semestre sarà impossibile cancellare o riparare il danno che già è stato fatto: decine di migliaia di morti non necessari, decine di miliardi di Pil andati in fumo. Quel che invece è possibile augurarsi è che chi ha provocato il disastro, non dico chieda scusa o tolga il disturbo, ma almeno cambi completamente rotta, e faccia ora quel che non ha fatto prima. Perché se non lo farà, abbiamo davanti due soli scenari: una riapertura a gennaio-febbraio presto seguita da una terza ondata, oppure un regime permanente di stop and go, con tante mini-chiusure e mini-riaperture che ambiscono solo a tenere Rt non lontano da 1.
Come andranno le cose?
L'ottimismo della volontà mi fa sperare che, finalmente, si cambierà strada, e si guarderà con più attenzione al modello dei paesi lontani.
Ma il pessimismo della ragione mi avverte: l'attesa messianica del vaccino avvolgerà tutto e tutti, quasi niente cambierà davvero, nessuno sarà chiamato a rispondere delle sue azioni. Né ora né mai.
Luca Ricolfi
© 2021 La nave di Teseo
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