Il viaggio di Enea nell'epica moderna

Domenica 20 Ottobre 2019
IL LIBRO
Enea è un bambino nato nei primi anni Cinquanta in una terra di mezzo che non è più Veneto e non è ancora Friuli. Basta passare il fiume per sentire un accento diverso, respirare perfino un'aria differente. E basta tornare indietro per riascoltare una dolcezza di lingua e uno stormire meno duro delle fronde del vecchio salice. È il Nordest della Pontebbana, quello che si trasforma da civiltà contadina a postindustriale, assorbendo troppo in fretta l'inurbamento e l'industrializzazione selvaggia che cancella le campagne, le grandi case contadine, le strade sterrate, gli alberi secolari sotto i quali si svolgeva la storia di una famiglia. Enea racconta il Novecento qui da noi e dove non bastano i ricordi personali, si aiuta con quelli del padre, il Patriarca, e del nonno. Le due guerre che hanno devastato queste terre, affollandole di invasori e di fuggiaschi, di detriti, di bombe, ne resta sempre qualcuna che deve ancora esplodere.
COME DICEVA PASOLINI
C'è una storia da ricomporre, come diceva Pasolini: «Verrà bene il giorno in cui il Friuli sarà cosciente di avere una storia», una propria. Con Pane e ferro, che si presenta come romanzo storico, Massimiliano Santarossa stende il suo racconto del Novecento partendo da un paesino, Paesenovo, raccontando la cronaca di un popolo povero, sfruttato, di emigranti, dilaniato dalla guerra, passando per il miracolo economico, la nascita del Nordest, il terrorismo arrivato fino in questo angolo, quattro osterie. Soprattutto racconta il passaggio dalla civiltà contadina (il pane) alla catena di montaggio (il ferro), grazie al metalmezzadro il contadino che indossa la tutablu ma resta legato alla terra, quasi fosse impossibile recidere il cordone ombelicale della vecchia civiltà per entrare di diritto nella nuova. Le grandi case contadine svendute, le stalle svuotate, le campagne rivoltate per farne aree edificabili, appartamenti con tinello, cucina in laminato, sedie in plastica, bagno con bidet. Case senza respiro, quasi, nelle quali il Patriarca muore prima di vedere realizzato il sogno di riscatto e la madre del protagonista se ne va senza un lamento dopo aver subito per una vita. La lezione della donna è nella visita che fa con Enea al cimitero: «Guarda, le tombe vicino all'entrata sono quelle dei poveri». Sguarnite, nella terra, e quelle dei bambini senza nemmeno la croce; quelle dei ricchi sono in fondo, imponenti, marmoree, lucide.
IL FILO CONDUTTORE
Enea è il filo conduttore di questo Nordest, il bambino alle prese con le scuole elementari in tempi di aste che riempiono le righe dei quaderni e i calamai appesi al banco, di bambini che parlano con difficoltà una lingua che non è di tutti perché deve ancora arrivare la televisione. Bambini che se si fanno male vengono accompagnati dalla Giustaossi perché il medico condotto non c'è e quando c'è si fa pagare. Le pagine sulla visita alla giustaossi o strega o santa come lo chiamano tanti, tra superstizione e fede, sono tra le più sentite. Santarossa mescola un linguaggio popolare alla lingua che irrompe decennio dopo decennio; non rifiuta la canzone che aiuta a capire meglio il sentimento popolare e il momento storico. Verso la fine l'autore canta a voce bassa quella che chiama la ballata dei poveri, è Nina di Gualtiero Bertelli, il cantautore veneziano. Una canzone d'amore in tempi di crisi di lavoro, di sogni spezzati dal licenziamento: Amarsi no xe no un pecato,/ ma ancuo el xe un lusso de pochi. I poveri sono sempre soli nella storia. È un viaggio tra mito e realtà, racconti tramandati e notizie diffuse dai giornali. Santarossa mescola con sapienza storia e fantasia, usa personaggi per ricordare orrori e speranze, altri che, sotto l'effetto del vino, servono a spaventare; quelli considerati i matti del paese aiutano a far accettare meglio certe verità. I bambini restano il futuro, i soli contro i quali anche gli adulti più duri si arrendono, come quando nelle ultime settimane della guerra sfamano e adottano i bambini portati fin qui dalla Collaborazionista, una donna sfuggita dalla Francia non più nazista. Un omaggio a Cèline, ma anche una storia verosimile in una regione che è stata la terra promessa da Hitler ai Cosacchi, terribili anche nel decidere come uccidere loro stessi. Enea cresciuto è una tutablu inquieta, dapprima inserito in una società nella quale tutto è frigoriferi - televisori - automobili - lavatrici e per la quale tutti lavorano 24 ore su 24 sabato e domenica, Pasqua e Natale. Poi Enea si ribella, tenta la grande città del Nord senza riuscirci, rientra in paese deluso ma non sconfitto. Perché i poveri cadono, ricadono, ma si rialzano. Il pane, in fondo, è ferro; entrambi sono vita.
Con questo libro Santarossa è diventato un narratore maturo e completo, per la solidità della storia, per la capacità di tuffarsi nella realtà e saper riemergere al momento giusto, per l'innocenza con la quale conserva l'infanzia e i sogni, per la rabbia consapevole. Un narratore della sua terra. L'autore cita spesso Pasolini, ma a leggere bene emergono le lezioni di Padre David Maria Turoldo e di Carlo Sgorlon. L'umanità ottimista e la tenacia non pessimista, il pane dell'uno e il ferro dell'altro.
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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