«I miei panettoni a Milano»

Lunedì 24 Giugno 2019
«I miei panettoni a Milano»
L'INTERVISTA
Lui i panettoni li fa e li vende direttamente ai milanesi, proprio col marchio di Milano sopra, Madonnina compresa. Partono inscatolati da Costabissara, settemila abitanti nell'hinterland vicentino. L'azienda è lì dal 1938, alto artigianato che guarda al mercato estero e punta sul web: se cercate siti sul panettone, Dario Loison vi apparirà in divisa di pasticciere, pronto a spiegare i segreti del marketing, testone pelato, inglese spigliato, perfino sotto forma di cartone animato.
Lui l'azienda ha dovuto comprarsela dal padre-padrone che lo aveva tenuto ai margini mandandolo a farsi le ossa tra le macchine per conceria nella Valle del Chiampo. Il ragazzo aveva talento e fortuna tali da fatturare in poco tempo 10 miliardi di lire, vendere e poi rientrare nel 1992 da proprietario nella fabbrica del padre: «Era il solo modo di averla, però lui non ha voluto aiutarmi, ha conservato la parte immobiliare e così gli pagavo tutti i mesi 6 milioni e mezzo di affitto».
Dario Loison, vicentino, 57 anni, viene da una famiglia che dagli Anni Trenta fa dolci. La Dolciaria Loison fattura 9 milioni di euro, la metà viene dall'export in 55 Paesi, la Francia è il più importante, i francesi mangiano panettone tutto l'anno. Nella stagione dei panettoni escono dai laboratori 40 mila pezzi ogni settimana. «Mio padre era un uomo molto duro. Era un grande lavoratore e un grande venditore, ha avuto la fortuna di avere vicino una grande donna, mia madre Bruna che si è uccisa per il lavoro e gli ha permesso di fare tutto. Sa cosa mi addolora di più ancora adesso? Non ho mai sentito dirmi bravo da mio padre!».
La storia dei Loison incomincia a Costabissara, con nonno Tranquillo che aveva aperto un forno a Motta, proprio davanti alla chiesa. Il figlio Alessandro, nato nel 1932, nell'immediato dopoguerra pensa di puntare sui dolci in un periodo in cui il pane è controllato e si vende soltanto con la tessera: «Con dieci chili di torta a fine settimana guadagnava più che tutta la settimana col pane». Va così bene che nel 1969 apre il nuovo stabilimento.
All'epoca Dario era un bambino, come è stata l'infanzia?
«Vivevamo dentro una cosa sconvolgente, anche i sette collaboratori dormivano in azienda. Eravamo i cinesi di allora, anche se tanti fanno finta di dimenticarsene. Dopo la scuola e i compiti, producevo ravioli o bignè, pulivo stampi, decoravo torte. Il lavoro era l'unica possibilità di svago che avevo, ma ero un bambino decisamente molto vivace: in quarta elementare sono stato sospeso per cinque giorni perché avevo protestato contro la maestra che aveva fatto preferenze agevolando una compagna. Sono stato promosso a condizione che cambiassi scuola e sono finito in collegio dai Filippini a Paderno fino al diploma, con mio fratello Tranquillo che ce l'aveva con me perché avevano chiuso in collegio anche lui».
Quando è entrato nell'azienda?
«Mio padre non mi permetteva di crescere professionalmente, ho cercato di trasferire nell'azienda gli studi di ragioneria, di farlo riflettere sui costi, non accettava interferenze. Quando avevo 18 anni, una volta davanti a un cliente faccio una proposta di incentivo, una specie di marketing in anticipo, lui mi gela: Non ti permettere più!. Dopo il servizio militare come ufficiale dell'Esercito, mio padre mi ha spedito in una fabbrica di macchine per conceria che aveva comprato perché sull'orlo della chiusura. Ho posto una sola condizione: che lui non ci mettesse naso».
E iniziata così la sua avventura professionale?
«Ho lavorato per nove anni nella Valle del Chiampo e questo mi ha permesso di guadagnare e di girare il mondo, di perfezionare l'inglese e adesso parlo anche un po' di spagnolo, tedesco e francese. Oggi collaboro con alcune università estere. Quello che, però, mi ha cambiato la vita è stato l'esame di marketing all'università Ca' Foscari, ho mangiato il libro Marketing management che conservo ancora, mi sono illuminato e ho fatto il mio percorso imprenditoriale fino a quando sono riuscito a mettere insieme il capitale per ricomprare l'azienda di mio padre. Tutto questo mi ha dato una forza importante, tengo lezioni a Ca' Foscari sul cambio generazionale: io l'ho vissuto nella maniera più dura e alla luce di questa esperienza ho imparato che per mio figlio Edoardo era meglio andare a lavorare a Gragnano in una grande azienda come assistente alla strategia del mercato. Lui parla e scrive tre lingue. Ora la società è tutta mia, anzi il 5% è di mia moglie Sonia che, per fortuna, ha abbracciato la sfida: era arredatrice d'interni, ha trasferito sui dolci il suo senso dello stile e dei colori. Quando ho rilevato l'azienda faceva quasi due miliardi di fatturato, ma vendeva senza un suo marchio e non faceva esportazioni. Adesso siamo quelli con una forte identità di prodotti, dal panettone alla biscotteria».
Come siete arrivati al panettone?
«Mio padre negli Anni '50 faceva solo panettone cellofanato e lo vendeva all'ingrosso. Io ho visto un enorme potenziale sul panettone da regalo, passando dallo scatolone industriale alla personalizzazione artigianale. Siamo diventati i numeri uno nel mercato regalo. Contano molto il controllo di qualità, gli elementi della lavorazione, il ciclo è molto lento e richiede 72 ore. Facciamo 15 tipi diversi di panettone e oggi, grazie a Internet, vendiamo nel mondo panettone tutto l'anno».
Come siete riusciti a venderlo ai milanesi?
«Siamo stati il panettone ufficiale del Comune di Milano per sei anni, le grandi aziende classiche non erano più milanesi e la produzione era soltanto industriale. Il Comune di Milano cercava produttori tradizionali e il sindaco ha scelto noi, diecimila pezzi l'anno, col marchio ufficiale di Milano e naturalmente col nostro nome. Ma rischiavamo di essere soltanto quelli del panettone, schiacciati dal successo; così ci siamo proiettati sui prodotti nuovi che saranno il nostro futuro. Torniamo indietro a fare quello che facevamo una volta, però dentro una bella scatola. Abbiamo fatto il filone al cioccolato, alla frutta, alla pera, all'uva. Gli ingredienti che usiamo hanno il gusto del tempo perduto: la vaniglia naturale del Madagascar, il sale integrale marino di Cervia, il cedro di Diamante, il mandarino tardivo di Ciaculli, il fico di Calabria.
La più grande soddisfazione?
«Sicuramente sapere che Carlo d'Inghilterra vuole il tuo panettone al mandarino. Ma anche vedere i biscotti Loison sull'aereo dell'ultimo volo di Papa Wojtyla in Svizzera, ancora oggi sono nel menù del Vaticano. Poi tornare a Ca' Foscari a Venezia nella prima aula magna, dove sono stato studente, ed essere oggi anche nel comitato scientifico Cibo e Vino di Ca' Foscari. E molte università mandano i loro studenti nella nostra azienda per studiarci come un piccolo esempio: da Verona a Boston, da San Paolo del Brasile a Glasgow. La nostra storia è finita nei libri di testo accademici sul marketing, qualcuno ci ha definito il lusso del panettone. Niente male per la mia vanità.
E la grande delusione?
«A livello economico la Banca Popolare di Vicenza: abbiamo perso 1 milione di euro dell'azienda. Dovevamo fare un finanziamento per il nuovo magazzino, ci hanno fatto un prestito obbligazionario e cambiato in azioni. A Vicenza è costato troppo, ci sono molti che hanno veramente perso tutto. Io ho avuto il coraggio di dirlo, altri subiscono e tacciono. Purtroppo queste cose hanno dimostrato che non siamo meglio degli altri, come pensavamo».
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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