«La mia famiglia nell'inferno di Beirut»

Venerdì 7 Agosto 2020
«La mia famiglia nell'inferno di Beirut»
L'ANGOSCIA
BELLUNO Martedì sera, appena ha potuto, ha telefonato a Beirut, la capitale del Libano che poche ore prima era stata devastata dall'esplosione di un deposito di liquido infiammabile, da anni stoccato al porto della città. Ali Chreyha, medico a Longarone dove è anche vice-sindaco, è infatti di origini libanesi. E lì ha ancora parte della famiglia e degli affetti. «Appena ho saputo cosa era successo racconta il medico e amministratore di Longarone ho provato una grande paura ed una forte angoscia. Ed altrettanta preoccupazione, in particolare per mia madre di 81 anni che vive a Beirut, ma ad una quindicina di chilometri dal luogo dell'esplosione, e per i miei suoceri e gli altri parenti, compresi i dieci fratelli di mia moglie, e per gli amici che vivono in zona; per mia sorella che invece è nel sud del Libano. Più in generale per la grave situazione del mio Paese d'origine che, anche prima di questo incidente, stava già vivendo un periodo molto difficile».
LE VITTIME
Il dottor Chreyha non ha avuto perdite fra i parenti. «Conoscevo invece un'infermiera di 23 anni che è morta, mentre un'altra di 32 anni è ricoverata perché ferita gravemente». I legami con il Libano di Chreyha sono ancora molto forti. Arrivato in Italia nel 1981 per studiare Medicina, si è laureato a Padova nel 1987. E qui è rimasto in Italia. A Longarone vive dallo stesso anno della laurea e, dopo la trafila delle sostituzioni e delle guardie mediche ed un periodo anche nel reparto di Geriatria all'Ospedale di Belluno, ha avuto la convenzione come medico di base nel paese segnato dal Vajont. Da ventun anni è anche in consiglio comunale; nella legislatura in corso, è il vice-sindaco di Roberto Padrin, con delega a Servizi Sociali, Sanità e Trasporti.
PERICOLO SCAMPATO
La relazione con la propria patria è talmente forte, che ogni anno, terminate le scuole, i suoi due figli trascorrevano l'estate in Libano: «Quest'anno invece non sono andati, a causa del Covid. E nemmeno io, che di solito sono lì ogni mese di agosto, ci sono andato per lo stesso motivo. E non ci tornerò ora». Ma Ali Chreyha è costantemente in contatto e conosce dai diretti testimoni come la situazione si stia evolvendo. «Non ho avuto lutti fra i familiari, ma so che se la sono vista brutta. Anche se vivono distanti dal porto di Beirut, hanno visto le case muoversi ed i vetri frantumarsi. Ho amici che sono rimasti feriti dalle schegge dei vetri delle vetrine; lo stesso è capitato a mio suocero, colpito dalle schegge di una vetrina di un negozio andata in mille pezzi: tutti sono stati portati e medicati al Pronto Soccorso più vicino, che è quello dell'Ospedale dell'Università americana di Beirut di Hamra. Ho chiamato amici giornalisti e altri che vivono giù e mi hanno raccontato quello che hanno visto e sentito: lo scoppio, il rumore, il crollo degli edifici e la demolizione di quelli rimasti lesionati».
SCONFORTO
Ma oltre alla paura e al dolore provati per quanto accaduto, il medico riflette più ampiamente: «Non è possibile lasciare un liquido infiammabile ed a rischio esplosione per sei anni in un deposito. Questa responsabilità è degli amministratori che non hanno affrontato e risolto la questione. E nella ricostruzione dei fatti c'è qualcosa che non torna, ma aspettiamo le indagini». Più in generale è forte l'angoscia per il proprie Paese: «E non solo per le restrizioni sanitarie imposte perché l'aria è tossica, ma per come ci siamo ridotti. Eravamo considerati la Svizzera del Medio Oriente, ora c'è una svalutazione della moneta incredibile, con prezzi altissimi, una fortissima recessione. Le cause? La crisi economica, l'embargo di Usa e Arabia Saudita, un certo tipo di politica,... E l'esplosione ha aggiunto a questa situazione anche l'emergenza abitativa: perché in una città di un milione e 800mila abitanti, ci sono quasi 400mila case inagibili».
Giovanni Santin
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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