Tragedia di Altino: un padre-padrone
che tiranneggiava la moglie e i 10 figli

Giovedì 15 Aprile 2010 di Giuseppe Pietrobelli
Elsa Bellotto e la casa dove abitava con il marito (foto di archivio)
VENEZIA (15 aprile) - Ogni ricordo di loro due lo teniamo dentro di noi... nella nostra famiglia, che adesso vogliamo continui a restare unita. I figli di Elsa e di Rino, della madre uccisa con un colpo di pistola dal padre possessivo e violento, rivelano con un’unica parola il senso tremendo di ciò che è accaduto in questo lembo di campagna, sotto un cielo nero e umido dove volano gli aerei decollati da Tessera. La famiglia, ancora la famiglia, sempre la famiglia. È il movente, la causa, il totem sociale e individuale da cui è scaturita una violenza quotidiana che si è protratta per un’esistenza intera. Quei due spari dentro uno sgabuzzino sono l’esplosione bruciante che ha interrotto la vita agra di un uomo e di una donna che si erano amati, avevano messo al mondo dieci figli, ma avevano dovuto convivere con le paure e i fantasmi assurdi della mente di lui, capace di trasformare quella casa in una bolgia.



La vecchia villetta a due piani immersa nel verde altro non era che una specie di nuraghe. Il cancello davanti al quale stazionano due poliziotti, era il limite invalicabile di un mondo dove vigeva soltanto la legge di Rino Costantini, 53 anni, conosciuto come il Buraneo. Voleva imporre il suo dominio su tutti, all’interno di un cerchio familiare che egli aveva creato per difendere se stesso dalla ferita insanabile di essere stato allevato senza una mamma. E per proteggere i suoi cari dai pericoli, dalla contaminazione di ciò che stava fuori da quelle quattro mura, oltre l’orto dove aveva piantato i pomodori e le zucche, che faceva crescere con passione. Non c’è nessuno, ad Altino, che si stupisca. Forse non pensavano, i vicini, che Rino sarebbe arrivato a tanto, abituati com’erano alle micro-esplosioni giornaliere di una brutalità che si manifestava all’esterno nelle grida selvagge e negli insulti rivolti alla povera Elsa Bellotto, 47 anni, e ai figli più piccolini. E che si concretizzava nelle bastonate domestiche, nelle botte, nei lividi, che nessuno aveva avuto il coraggio di denunciare.



Di tutto questo parlano per ore i figli rispondendo al Pm nella trattoria Antica Altino, a mezzo chilometro dal luogo dove si è consumato l’omicidio-suicidio dei loro genitori. Il bar è diventato una specie di Commissariato, una saletta è stata occupata per gli interrogatori. I ragazzi sono impauriti, frastornati. Ma non piangono, non in pubblico. La più grande, Valentina, ha 26 anni. La più piccola ne ha solo sei. Nella differenza di età, quasi un quarto di secolo, è racchiuso il calvario della famiglia Costantini. Raccontano di quel padre che viveva l’ossessione di difendere la propria famiglia, di comandare, di imporre le sue regole. E chi non le rispettava veniva picchiato. I ragazzi potevano andare a scuola, ma poi era vietato uscire, avere amici o andare soltanto a mangiare una pizza. Era lui che comandava su quella tribù che aveva messo al mondo. Quando andava nella tenuta di Zacchello a fare il guardiano era per tutti una liberazione. Quando i bimbi prendevano il pulmino che li portava a scuola, era una festa.



I vicini raccontano il rancore di Rino per il mondo intero. «Due ore prima degli spari mi ha detto che i figli non lo aiutavano nell’orto. "Gliela farò pagare cara" sono state le sue ultime parole». Una donna: «Litigava perchè tagliavamo le canne del giardino». Un uomo: «In tredici anni gli avrò parlato una volta sola». Il ragazzo che è entrato in casa e ha trovato i corpi: «Da tre giorni era una bestia, era andato fuori di testa». Un collega di lavoro: «Quando veniva in Val Dogà, era tranquillo, normale».



Era nel suo mondo che Rino scatenava la rabbia, la legge dell’isolamento, la paura del mondo. Solo da qualche anno una breccia si era aperta. Mamma Elsa aveva trovato il coraggio di uscire. Andava ad aiutare in casa del figlio dell’imprenditore Zacchello. Era una piccola grande conquista, perchè guadagnava due soldi e si illudeva di avere un’esistenza normale. «In questi anni Elsa si è guadagnata la sua dignità, la sua libertà, la sua autonomia» confida il parroco don Gianni Fazzini. Nessuno aveva pensato di presentare denuncia. «Lui vedeva dappertutto minacce per la famiglia, era impossibile farlo ragionare. Ed Elsa voleva tenere la famiglia unita. Si è lucidamente sacrificata per questo scopo» si sforza di cercare una morale escatologica. Le figlie più grandi avevano trovato lavoro ed erano andate via. Per lui erano come morte, non potevano più tornare. Giorni fa il figlio Riccardo ha detto alla madre: «Io vado a denunciarlo». Lei non aveva voluto. E ha segnato la propria fine.
Ultimo aggiornamento: 7 Aprile, 18:12 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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