Il Gobbo di Rialto, la statua parlante e le pasquinate veneziane

Lunedì 18 Gennaio 2021 di Alberto Toso Fei
Illustrazione di Matteo Bergamelli

A Rialto, di fronte alla chiesa di San Giacometto, si trova un antico tronco di colonna in granito rosso – proveniente da Acri come bottino di guerra – dalla cui sommità venivano bandite le leggi o i nomi dei condannati ai tempi della Serenissima. Una posizione, così accosta al mercato, che rendeva questa collocazione ideale per questo genere di comunicazioni. Ebbene, la breve scala che vi sorge a fianco poggia su una statua; questo è, per i veneziani, il Gobbo di Rialto, scolpito da Pietro da Salò nel 1541. Secondo una leggenda la scultura raffigurerebbe un gobbo realmente esistito, condannato a sostenere una scala simile e morto per la fatica.

In realtà il Gobbo, a guardarlo con una minima attenzione, non è però affatto tale: si tratta della raffigurazione di una persona curva per lo sforzo. Ma nulla ha più potere a Venezia dell'immaginario, e quel primo nome affibbiatogli dal popolo gli rimase appiccicato fin da subito, ed è così che ha attraversato i secoli. E in una città nella quale le statue pubbliche furono rarissime, in passato (peraltro a volte inaccessibili, come quella dedicata a Bartolomeo Colleoni), ai veneziani non parve vero di poterne avere una a portata di mano, o per meglio dire di bocca.

Perché una delle peculiarità del Rinascimento consistette anche... nel far parlare le statue. A Roma già da decenni Pasquino attaccava i potenti di turno con feroci frecciate che comparivano (e ancora compaiono) a mo' di cartiglio sul basamento, al punto che “pasquinata” è ancora oggi parola utilizzata nel gergo comune per indicare un lazzo condito di un certo sarcasmo. A dare inizio all'utilizzo del Gobbo fu – secondo la tradizione – Pietro Aretino, che dopo essere fuggito a Venezia proprio da Roma non ebbe appunto statue sulle quali perpetuare la tradizione. Il Gobbo di Rialto, anzi, finì per divenire ben presto un interlocutore vivacemente polemico di Pasquino. Fu Marin Sanudo, nei suoi “Diarii”, a rendere noto il ruolo dell’Aretino, che divenne egli stesso bersaglio privilegiato delle prime “pasquinate” veneziane.

A nome del Gobbo, a partire dal 1577, presero vita varie pubblicazioni che cominciarono a parlare di vari argomenti, come l’apparizione delle comete o la disonestà delle donne e nel 1606-1607, la stagione dell’Interdetto che oppose Roma a Venezia, il Gobbo divenne l’autore di manoscritti satirici indirizzati al Papa. Dialogava preferibilmente con Marocco dalle Pipone (o Marocco Popone), che altri non è che una delle piccole statue scolpite sui gradini della colonna che in Piazzetta San Marco sorregge il leone, che ha un’anguria su una cesta di vimini. Altro “Pasquino” di Venezia fu sior Antonio Rioba, il più famoso dei mori dell’omonimo campo di Cannaregio (che a sua volta nel 1848 ebbe un giornale satirico che ne assunse il nome e dialogò con un'altra piccola statua dello stesso sestiere, oggi scomparsa, chiamata Emanuele “Momolo” Spinara).

Ma la fama del Gobbo raggiunse ben presto vette tali da intaccare quella di mastro Pasquino che, geloso, da Roma iniziò ben presto ad attaccare il suo omologo veneziano. La risposta non si fece attendere, e prese così vita una “disfida” epistolare in ottave ispirata al rinfaccio della tenzone medievale che documenta non solo le relazioni cinquecentesche tra le due statue “parlanti” (dietro le quali si celavano spesso scrittori di fama), ma anche la storica inimicizia di due città in lotta tra loro nell'affermazione da una parte del primato del potere spirituale e temporale e, dall’altra, l’intangibilità della propria libertà.

Con una curiosità finale: fin dai primissimi tempi della sua posa, il Gobbo divenne suo malgrado protagonista di una singolare usanza. Nel baciarlo, arrivando da San Marco – ed essendo stati frustati lungo tutto il percorso – ladri e malfattori davano termine al loro castigo. Un bacio che dobbiamo immaginare richiesto a furor di popolo, tra sputi, offese e schiamazzi. Un'usanza che gli Avogadori della Repubblica considerarono evidentemente blasfema: il 13 marzo 1545 furono così posti sulla colonna d’angolo con ruga dei Oresi una croce sormontata da un’effige del leone di San Marco. Se proprio qualcuno doveva essere ringraziato e baciato, fosse il protettore della città. Croce (o meglio, l'alveo che la ospitava) e San Marco, dette da allora “dei frustai”, sono ben visibili ancora oggi.

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