VENEZIA - Il buco del Lido resterà tale: una voragine.
LA VICENDA
Lo scandalo era esploso nel 2011 attraverso un esposto del Codacons, che denunciava l'impantanamento dei lavori per i mancati finanziamenti e per il rinvenimento di amianto. A quel punto la Guardia di finanza aveva ricostruito le tappe della vicenda, iniziata nel 2003 con il mandato del municipio alla Biennale per la predisposizione di uno studio di fattibilità e di un concorso per la progettazione preliminare dell'opera da 94,5 milioni, inserita fra quelle individuate per le celebrazioni del 150° anniversario dell'Unità d'Italia e dunque incardinata sotto la Presidenza del Consiglio dei ministri.
Nel 2008 l'intervento era stato affidato alla ditta Sacaim, che nel 2009 aveva segnalato la presenza di «materiale terroso con sospetta presenza di Eternit». Da quel momento in poi si era susseguita una sfilza di rinvii e rimpalli, per cui sostanzialmente il nuovo Palacinema era rimasto sulla carta, generando un danno quantificato in 12,6 milioni. Dopodiché nel 2015 il Comune e Sacaim avevano sottoscritto una transazione, che prevedeva la riqualificazione degli esistenti Palazzo del Cinema e Palazzo del Casinò, nonché il pagamento di 2,8 milioni dall'ente all'azienda, che pure secondo la Procura contabile sarebbe stata responsabile di metà danno e dunque di circa 6 milioni.
L'ACCUSA
Sotto la lente del pm Di Maio erano finiti tredici colletti bianchi. Per la maggior parte di loro l'accusa è caduta, mentre a De Santis e Fabrizi è stato contestato di non aver prescritto «approfondite indagini nel terreno». Secondo la consulenza disposta dalla Procura, il fatto che in zona preesistesse «la batteria Quattro Fontane, fortificazione austriaca in parte demolita e in parte integrata nella nuova costruzione», unito alla circostanza che erano stati rinvenuti «residui di eternit» nelle vecchie capanne degli stabilimenti balneari sul lungomare Marconi, avrebbe dovuto indurre i responsabili dell'opera «a svolgere approfondite indagini archeologiche, raccomandate anche dalla Soprintendenza per i beni Archeologici del Veneto».
Invece le bonifiche erano state «impostate e condotte sulla base di valutazioni inesatte, che non avevano compreso la natura e la presenza quantitativa del contaminante nel sito degli interventi, né, a ben maggior discapito, l'estensione e la profondità della contaminazione».
LA DIFESA
I due funzionari, rappresentati in udienza dagli avvocati Fabio Baglivo e Tommaso Fusillo, hanno affermato innanzi tutto la propria estraneità rispetto alla responsabilità erariale. Per esempio la difesa ha rimarcato il «coinvolgimento di vari soggetti nella verifica delle varie fasi di progettazione» e ha sottolineato che «nessuna Amministrazione ha mai evidenziato, in tempo utile (ad esempio in sede di conferenza dei servizi) la presenza di amianto od altri inquinanti». In secondo luogo i legali dei due ingegneri hanno invocato il riconoscimento dell'intervenuta prescrizione.
LE MOTIVAZIONI
Proprio quella che alla fine li ha salvati. La sezione giurisdizionale per il Veneto della Corte dei Conti, presieduta da Carlo Greco, ha infatti ricordato che «la prescrizione del diritto al risarcimento del danno, oggetto del giudizio di responsabilità amministrativa, decorre dal momento in cui si è verificato il fatto dannoso, intendendosi il fatto come comprensivo dell'evento dannoso e della esteriorizzazione o conoscibilità obiettiva di esso». Ebbene, secondo il collegio le istituzioni hanno saputo del danno il 24 novembre 2011, cioè quando «è risultato palese alle amministrazioni danneggiate il pregiudizio patrimoniale» consistito nel pagamento degli stralci, pertanto «il termine prescrizionale quinquennale risultava già decorso in data 5 dicembre 2016», vale a dire nel giorno in cui è stata perfezionata la notifica degli atti di costituzione in mora.
Dunque per i giudici «non occorreva attendere la decisione del totale abbandono dell'opera (...) perché fossero conosciuti o conoscibili la presunta inutilità delle spese sostenute e l'ipotizzato danno erariale, derivanti dall'inadempimento delle obbligazioni». In definitiva è trascorso troppo tempo, prima che venisse presentato il conto del buco. Dieci anni dopo l'esposto, questa è l'amara fine della storia, perlomeno in primo grado.