Abdon Pamich, 90 anni, è diventato uno dei più grandi marciatori del Mondo: «La gara più dura? Sfuggire dall'Istria»

La sua marcia più difficile non è stata quella di Tokyo nel 1964, che lo ha fatto entrare nella storia dello sport.

Lunedì 6 Marzo 2023 di Edoardo Pittalis
Abdon Pamich, 90 anni, è diventato uno dei più grandi marciatori del Mondo

La sua marcia più difficile non è stata quella di Tokyo nel 1964, che lo ha fatto entrare nella storia dello sport. L'oro alle Olimpiadi vale un posto nella leggenda. La sua marcia più dura Abdon Pamich l'ha fatta a 13 anni in un giorno di settembre del 1947 per scappare dalla Jugoslavia di Tito e raggiungere il padre esule in Italia. Col fratello Giovanni ha marciato nella notte per ore, lungo i binari della ferrovia che da Fiume portava a Divaccia. Nel buio, con i riflettori che ogni tanto rompevano la notte e i soldati titini che sparavano anche al vuoto. Faceva un freddo cane sul Carso, loro indossavano una maglietta e calzoni corti, erano scappati dal mare. Arrivarono a Trieste mescolati a un gruppo di triestini e divennero ufficialmente due profughi della ex Jugoslavia, con tanto di certificato che dava diritto a 300 grammi di pane e a tre etti di chiodi per famiglia, dietro presentazione della "ricevuta di esodo".
Abdon Pamich, 90 anni, nato a Fiume è diventato uno dei più grandi marciatori del mondo. Oro e bronzo alle Olimpiadi, cinque partecipazioni ai Giochi, l'ultima a Monaco nel 1972 come portabandiera. Una serie di titoli europei e coppe del mondo, 40 titoli italiani consecutivi tra 1955 e 1968. Non dimentica il suo passato di profugo, per il Giorno del Ricordo è arrivato a Roncade per incontrare vecchi sportivi giuliano-dalmati, qualcuno aveva gareggiato con lui settant'anni fa. E anche per parlare di un libro su quei campioni curato da Alessandro Cuk.
Come è stata l'infanzia di Abdon a Fiume?
«Mio padre era dirigente d'azienda, mamma Erenia badava ai quattro figli. Papà lavorava oltre confine, ma il confine era la città, bastava passare un ponticello. Mi chiamo Abdon, vuol dire servo del Signore. È stata un'infanzia spensierata, si viveva molto con i nonni. Lo zio Cesare organizzava incontri di boxe ad alto livello al teatro Fenice, il più grande teatro della Croazia; oggi è abbandonato. Avevamo un campione olimpico, il peso gallo Ulderico Sergo che aveva vinto a Berlino nel 1936. Fiume era città di campioni: i Varglien della Juventus, Loik del Grande Torino. Da aprile a ottobre passavamo le giornate al mare, dopo gli 11 anni ho incominciato ad andare in montagna, si partiva all'alba e si rientrava a notte piena, verso il Monte Nevoso e il Monte Corno. Grandi camminate, si vede che avevo già qualità di resistenza. Poi è scoppiata la guerra, i bombardamenti, i morti, la fame».
E alla fine della guerra?
«A un certo punto è incominciato il regime del terrore, le sparizioni senza ragione, i massacri, i corpi nascosti. Era questo il clima dal quale mio padre è riuscito a scappare. Il governo jugoslavo gli aveva affidato il compito di riunire le imprese edili per la nazionalizzazione, ma non aveva mezzi, gli consigliarono di non tornare. Nel settembre del 1947 con mio fratello siamo fuggiti alle due di notte raggiungendo Trieste. Papà era a Milano, noi due siamo stati mandati nel campo profughi di Novara, in un'ex caserma senza finestre e quando pioveva entrava l'acqua. La camerata era divisa da lenzuola appese a fili di ferro che delimitavano l'intimità delle famiglie. Lenticchie e riso a pranzo e a cena. Mio fratello ha ripreso le scuole, era al liceo; per me era disponibile solo l'istituto tecnico per geometri: io volevo fare il Nautico, navigare. Il diploma poi mi è servito, sono entrato alla Esso. Ci siamo ricongiunti a nostro padre che aveva trovato lavoro a Genova e dopo qualche mese sono arrivati mamma e due fratelli».
È più tornato a Fiume?
«Trent'anni dopo: ma non è come l'emigrante che quando torna si sente a casa, sembra di essere noi gli stranieri. Stanno distruggendo anche le tombe così se ne va tutta la memoria e non resterà niente di quella Fiume italiana che aveva un porto dal quale partivano anche gli idrovolanti e c'erano fabbriche con migliaia di operai: il silurificio, la manifattura dei tabacchi, la cartiera, la raffineria. Adesso c'è solo il turismo e nel porto solo barche di lusso. Quest'estate ho rivisto anche la mia casa, mi ha aperto una signora e ho disegnato a memoria l'appartamento. Quando ci abitavo io era in viale Camicie Nere, di fronte alla stazione, oggi la strada è intitolata a un re croato. Rivedere la mia città nelle prime volte mi straziava, poi ho ritrovato qualcuno che c'era allora e ho conosciuto una signora con i nipotini che parlano il fiumano come lo parlavamo noi una volta. Ascoltare era felicità».
La prima gara del futuro campione Pamich e perché proprio la marcia?
«Il Trofeo Pavesi per esordienti, mio fratello lo aveva già vinto. L'ho vinto anch'io ed è stato il primo successo di livello. Lo stesso anno, era il 1952, ho fatto la prima gara lunga a Trieste, sui 30 chilometri: sono arrivato quarto, c'erano tutti quelli che arrivavano dalle Olimpiadi di Helsinki. Non ho scelto la marcia, mi ha scelto. Sono andato allo stadio e quando ho detto il cognome mi hanno risposto: allora fai la marcia anche tu, come tuo fratello. Potevo anche giocare al calcio, ero stato chiamato per un provino in Promozione, mi avevano visto giocare portiere nel torneo studentesco. Non mi andava nemmeno il canottaggio, volevano che facessimo il doppio con mio fratello, ma sapevo che lui avrebbe mollato perché studiava Medicina e insegnava ginnastica per mantenersi. Ha fatto il primario chirurgo a Gorizia. Preferivo uno sport individuale, così ho continuato con la marcia».
La prima maglia azzurra?
«Nel 1954 a Berna, la prima di una serie infinita. Il primo successo a livello mondiale è stato a 23 anni nella gara internazionale Praga-Podebrady, c'erano tutti i migliori del mondo. Ho lottato con un cèco che aveva fatto il record del mondo, l'ho staccato negli ultimi chilometri e sono arrivato al traguardo con 4 minuti di vantaggio e il nuovo record della gara. In Australia per le Olimpiadi del 1956 la Federazione ci ha stressato, bastava ci facesse riposare. Sono arrivato quarto, ma era una gara alla mia portata, ha vinto un inglese che gareggiava con la Nuova Zelanda perché l'Inghilterra non lo voleva».
La prima medaglia olimpica a Roma nel 1960
«Stessa roba. Eravamo in allenamento collegiale e si sono dimenticati di noi. Sono arrivato terzo, sono salito sul podio, praticamente ho fatto tutto nel finale, recuperando tempo e posizioni, quattro minuti su cinque. Era buio, davanti erano scappati in due, forse con la luce e se non fossero stati in coppia li avrei presi. L'inglese Thompson non è più arrivato davanti a me».
E l'oro di Tokyo?
«Sono arrivato in Giappone che ero mezzo morto, si facevano quattro vaccinazioni. Ma quel giorno ero calmo e stavo bene, solo che a un rifornimento ho preso una bibita ghiacciata e ho avuto problemi intestinali. Avevo già perso un Europeo per questo motivo, ero arrivato secondo. Questa volta mi sono fermato dietro un cespuglio, protetto dal servizio d'ordine, ho ripreso raggiungendo l'inglese Nihill e superandolo sotto la fitta pioggia. Nello stadio sono entrato da solo. A Tokyo ho provato una grandissima emozione e non soltanto perché avevo al collo la medaglia d'oro e questo ti fa entrare nella storia: quando si sente l'inno non riesci a trattenerti».
Cosa è la marcia per Pamich e come è cambiata?
«Io facevo i 50 chilometri su strada in 4 ore e 5', ma oggi è un'altra specialità, vanno in sospensione, con una tecnica differente, su strade migliori. La marcia da allora ha guadagnato mezzora. I paragoni sono difficili, è come paragonare il salto con l'asta di oggi con quello di ieri che si faceva con aste rigide. La marcia per me è una passione e anche un divertimento. A Genova mi allenavo sul lungomare, vedevo i tramonti e l'alba, perché lavoravo e potevo allenarmi solo in quelle ore. A Capodanno mentre la gente tornava dal veglione io correvo».

 

Ultimo aggiornamento: 19:48 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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