"L'attesa", Michela Cescon torna alla regia: «L'energia del teatro che dona emozioni»

Mercoledì 9 Marzo 2022 di Chiara Pavan
Michela Cescon guida Anna Foglietta e Paola Minaccioni in "L'attesa"

Una donna per le donne: Michela Cescon la vede così, semplice e pulita. Una regista e due grandi attrici come Anna Foglietta e Paola Minaccioni, “spinte” fuori dai soliti ruoli cui cinema e tv ormai ingabbiano le donne. E una sfida produttiva da prendere a esempio per il teatro di oggi. Dopo essersi misurata con Moravia e la sua “Donna Leopardo”, l’attrice trevigiana si rimette in gioco in una nuova regia teatrale, “L’attesa”, tratta dal romanzo del veronese Remo Binosi (dall’11 al 13 marzo al Comunale di Treviso, dal 23 al 27 al Verdi di Padova e dal 5 all’8 maggio al Goldoni di Venezia), «una pièce potentissima che avevo visto a 28 anni con Maddalena Crippa ed Elisabetta Pozzi, e che mi ha spinto a continuare questo mestiere, dandomi un’energia incredibile».

Una storia di clausura, di reclusione, con due donne, una nobile e una serva, che si trovano a vivere la propria gravidanza rinchiuse in una casa di campagna: «C’è stato il covid, siamo stati rinchiusi e mi sono detta: riparto da lì, dal teatro, con un lavoro energico, pieno di emozioni, dove ridi, pensi, rifletti. Uno spettacolo con due ruoli notevoli che abbiamo dimenticato».

Come è arrivata a questo progetto?
«Tutto nasce da folgorazioni. Devo trovare materiale che mi dia spazio per lavorare, per metterci qualcosa di mio. Da regista».
A partire dalle donne.
«Esatto: prima di tutto volevo portare in scena Anna e Paola, le stimo molto, e nessuno le aveva mai messe insieme. Anche perché il nostro panorama offre alle donne sempre i soliti ruoli-clichè. Avevo voglia di regalare loro una performance importante, dimostrare che sono due grandissime attrici».

E come le ha “viste” in scena?
«Ho avuto l’intuizione di doverle mascherare. Come dire: per tirare fuori l’attrice dovevo mettere loro la maschera, che dà tantissima libertà. Quindi il testo, contemporaneo, non doveva essere troppo contemporaneo. Così le ho infilate in un costume che “costringe”, liberandole nello stesso tempo. Osservare Minaccioni e Foglietta con abiti del ‘700 è interessante: non vedi i ruoli, ma l’attrice che racconta una storia».
I ruoli femminili sono sempre difficili da trovare.
«Non ce ne sono più nel teatro italiano. Se vai a parlare con un teatro importante, ti dicono che il cartellone è pensato per i ruoli maschili. Perchè il pubblico è femminile, ormai è un dato di fatto, come è un dato di fatto che le produzioni con attore maschi vendono di più. Questo è un paese che ha perso le sue “capocomiche”. Penso alla Falk, alla Valeri, Morriconi, Proclemer, l’ultima è stata la Melato. Il teatro era in mano loro, ma negli ultimi 20 anni è sparito. Ecco, per me il teatro deve tornare a quella forza lì».
L’attesa: il titolo è importante. 
«È pieno di cose importanti. Non è un testo femminista, ma sul desiderio, sul piacere: in scena ci sono due corpi intriganti, e lo spettatore diventa testimone di un’intimità femminile».
Anche il linguaggio aiuta a riflettere.
«Da una parte c’è il veneto, quello asciutto che tende verso Goldoni nel ritmo delle frasi. Dall’altro c’è l’italiano purissimo e letterale della nobile. Un contrasto che si amalgama anche grazie alle attrici. Sono contenta che Elisabetta Sgarbi abbia deciso di pubblicare “L’attesa” per La Nave di Teseo, era importante farlo perché il testo deve entrare nel repertorio».
Sarà nella sua Treviso per lo spettacolo?
«Sì, torno a casa un po’, ne sentivo la mancanza. Non ero venuta per “La donna leopardo”, l’ultima replica è stata proprio a Treviso, poi hanno chiuso tutto».

L’attesa” ha una bella tournè davanti.
«Sì. Abbiamo fatto una scelta indipendente, che ci permette di guardare avanti: c’è la coproduzione del nostro “piccolo” teatro di Dioniso con lo Stabile del Veneto in collaborazione con lo Stabile di Bolzano e alcuni enti laziali, così possiamo permetterci di portare in giro lo spettacolo. I teatri importanti, per questioni ministeriali, devono stare dentro certi numeri, sono obbligati a produrre in loco e fare un tot di repliche e poi basta. Non interessa proseguire. L’importante è dimostrare che producono. Ma non è neanche colpa loro».
E come si può fare allora?
«Il meccanismo andrebbe regolato meglio. Perché così si uccidono le piccole compagnie che non possono contare su nomi, e non si possono vendere dove ci sono i soldi, che intanto devono produrre tanto e per mesi non hanno più spazio per niente. Il discorso è lungo e complicato, ma porta anche ad un impoverimento del parco attori. In Italia i Servillo, i Tiezzi, i Del Bono, sono nati dentro i gruppi di artisti. Le tournée, poi, aiutano anche a far crescere gli spettacoli. Glauco Mauri faceva 12 mesi di tour, ti facevi ossa con lui, iniziavi a vedere chi eri. Adesso con 10 giorni di lavoro, e che cosa vuoi che accada? Tra i giovani, adesso, vedo la trevigiana Rosellini che si sta difendendo bene».

“L’attesa” è figlia anche del suo sguardo di produttrice.
«Diciamo che è anche la dimostrazione che si può fare diversamente. E, anzi, si deve. È una delle pochissime compagnie che riesce a girare in tournée fino a maggio, vendendo biglietti. Entrando in un mercato che non esiste più».

Ultimo aggiornamento: 10 Marzo, 09:48 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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