Colomban come una favola: il figlio del fabbro del paese diventa padrone del magnifico castello

Lunedì 15 Marzo 2021 di Edoardo Pittalis
Massimo Colomban, 71 anni, con la moglie e le quattro figlie
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TREVISO - Il figlio del fabbro del paese ha avuto successo fino a guidare un'azienda internazionale, la Permasteelisa, un miliardo di euro di fatturato, quotata in Borsa a Milano e a Singapore.

Massimino Colomban, detto Massimo, ha lasciato dopo aver distribuito quasi metà delle azioni ai soci: «Un giorno il dottore mi ha detto che io sull'aereo ci sarei rimasto. Facevo anche 16 ore al giorno e il week-end serviva solo per gli spostamenti». 

Oggi dal suo castello, il Castelbrando, domina la Valmareno nell'Alto Trevigiano, una rocca appoggiata alla montagna. Tante finestre quanti i giorni dell'anno, la vecchia contessa Brandolini si vantava di affacciarsi ogni mattina da una stanza diversa. Con la moglie Ivana, Colomban ne ha fatto un hotel con ristoranti, bar e spa. Con 70 ettari di bosco e foresta attorno. Un anno fa aveva 200 mila visitatori e fatturava 5 milioni di euro, il Covid ha frenato il turismo. La lunga quarantena ha riportato nel bosco cervi, caprioli, cinghiali e anche qualche lupo.


Massimo Colomban, 71 anni, nato a Santa Lucia di Piave, 4 figlie, ma nessuna lavora in azienda, ha comprato il castello nel Duemila dai Salesiani per due milioni e mezzo di euro, poi ce ne sono voluti più di venti per ristrutturarlo. Brandolino Brandolini era un capitano di ventura per la Serenissima nel Quattrocento, combatteva al fianco del Gattamelata. Quando fu il momento di pagare, Venezia saldò il debito con una contea sulle colline seguendo il corso del Soligo e a protezione delle strade per i passi alpini.
Dalla rocca, Colomban con la società di famiglia continua a lavorare nel settore immobiliare e nel campo delle ristrutturazioni; ora punta sul Bonus 110% per l'edilizia. Del passato è rimasta la passione per la musica: suonava la chitarra in una band che ogni tanto si esibisce nel parco del castello col nome di Brando Boys. Rock con infissi all'italiana. La sua storia è specchio del modello veneto del dopoguerra, quello legato alla ricostruzione prima e al boom dopo. La sua vicenda imprenditoriale racconta al meglio il fenomeno di quelli che sono stati chiamati i metalmezzadri del miracolo economico.
Come incomincia la storia dei Colomban?
«La nostra era una famiglia di artigiani e di agricoltori, papà faceva il fabbro, ma anche il falegname a Santa Lucia di Piave che era un paesotto agricolo. Mi metteva nella fucina a spingere l'aria col mastice, oppure al tornio col legno. Eravamo cinque figli, tre sorelle. I campi non permettevano di mantenere tutti, così siamo andati a lavorare. Ho iniziato a 14 anni come meccanico in un'officina per auto, contemporaneamente finite le professionali ho seguito corsi da disegnatore e mi sono presentato a un'azienda di infissi che aveva più di cento dipendenti, la Ialf. Ho fatto la gavetta, fino ad arrivare al posto di vicedirettore dell'ufficio tecnico. Avevo 23 anni quando ho deciso di mettermi in proprio con un ex collega, sempre per fare infissi. Dopo un anno ho rilevato tutte le quote con mio fratello e altri due soci e io andavo in giro a vendere».
Il metalmezzandro ha avuto fortuna?
«Dopo tre anni noi esportavamo in Libia, Venezuela, Germania. Affiancavamo l'abitudine contadina e artigianale, nessuno era più metalmezzadro di noi. Nel nostro mondo si nasce già imprenditori, il contadino non ha stipendio. Studiando di sera ho preso il diploma di geometra, ho anche frequentato due anni allo Iuav. Ho rinunciato al posto fisso di tecnico comunale per continuare a fare l'imprenditore. Sono stato fortunato a vivere la ricostruzione e il boom, crescevo mentre attorno a me c'erano già i giganti: Zoppas, Benetton, Del Vecchio, tutta gente che si era fatta da sola». 
Il salto internazionale quando è arrivato?
«Già nel 1978 eravamo presenti sul mercato internazionale e questo era un vantaggio: in Italia non hanno mai trattato troppo bene l'impresa artigianale, fuori, il mercato è più esigente, ma paga puntuale e riconosce la qualità. La nostra fabbrica si chiamava Isa e con quel nome nel 1982 siamo andati a Sidney a rilevare un'azienda, la Permasteel, che faceva rivestimenti in acciaio. Ho unito il passato e il futuro e dai due nomi è venuto fuori Permasteelisa. Eravamo già presenti a Singapore, e si capiva che quel mercato potevi affrontarlo solo stando vicino: l'Australia era considerata dai cinesi il cordone ombelicale. Il nostro primo grande lavoro è stato il rivestimento delle due Torri della più grossa banca di Singapore, una commessa da 68 milioni di dollari. Facevamo involucri esterni, pannelli prefabbricati che si sviluppano in altezza. La metà delle grandi Torri e dei grandi edifici che ci sono al mondo sono stati costruiti dalla Permasteelisa: da Hong Kong a Los Angeles. Solo a New York ci sono trenta torri nostre. I due Parlamenti Europei di Strasburgo e Bruxelles, la più alta torre d'Europa a San Pietroburgo, 450 metri. A San Francisco abbiamo rifatto la sede madre della Apple, solo di facciata 450 milioni di dollari». 
Se era una miniera d'oro perché ha lasciato?
«Quando sono uscito, dopo quasi quarant'anni, ho distribuito il 40% delle azioni a 83 manager con i quali l'azienda era cresciuta, poi loro se le sono vendute. Oggi è di un grande gruppo finanziario americano. Ogni imprenditore dovrebbe pensare a garantire la continuità, per fare un'azienda ci vogliono decine di anni, per distruggerla basta pochissimo. Io ho quattro figlie, nessuna aveva la passione per l'impresa, forse anche perché avevano visto un padre che non c'era mai. La vita è una sola».
Cosa è accaduto quando si è ritrovato improvvisamente libero?
«Ho incominciato facendo quello che io chiamo servizio civile, prima il console onorario australiano, poi il comandante onorario della US Force di Aviano, per quattro anni sono andato al comando mondiale in Illinois. Poi sono stato coinvolto dal ministro Tremonti nella ristrutturazione della società Sviluppo Italia-Veneto e in tre anni ho riportato i conti in utile. Subito dopo l'allora sindaco di Venezia Cacciari mi ha chiamato per ristrutturare il Vega: lo prendo con 21 milioni di debiti e lo restituisco con un attivo di cassa di cinque milioni. In Confindustria abbiamo creato un gruppo per risvegliare la politica, i due terzi delle entrate derivano dall'impresa. Non avevamo preclusioni, nel 2012 ci ha avvicinato Beppe Grillo con Casaleggio che diceva di avere una nonna trevigiana, di Oderzo: ci hanno subito accusati di essere grillini».
Però Grillo l'ha chiamata a Roma per dare una mano alla giunta Raggi?
«Dopo anni, Grillo mi ha chiesto di mettere a posto le partecipate della città di Roma. Ho ristrutturato le aziende, le ho portate da 32 a 12; una relazione di 580 pagine approvata dal Consiglio comunale con la legge Roma-Capitale. Ho previsto il risparmio di 80 milioni di stipendi, salvando tutta l'occupazione. Completato quello che avevo promesso, sono andato via. Adesso non voglio più sentire parlare di politica».
Quanto ha pesato il Covid?
«Noi abbiamo perso nel 2020 il 70% del fatturato, quest'anno la grossa fetta che si sperava a Pasqua è andata in fumo. Noi abbiamo grandi spese per tenere in piedi la struttura e gli eventi, i matrimoni, i convegni sono tutti saltati. Ci può salvare solo la vaccinazione e bisognerebbe usare subito l'ombrello dei medici di famiglia. Noi abbiamo una fortuna, sono stato un formicone, i miei risparmi li ho tenuti da parte, siamo in grado di resistere in questa tempesta. Ma fino a quando? Il Covid ci porta anche a rivedere le strategie: tutti questi spazi possono essere convertiti in un Centro di Rigenerazione delle capacità immunologiche delle persone». 
Edoardo Pittalis
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Ultimo aggiornamento: 18 Marzo, 11:56 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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