Il derby del cuore del prete calciatore: «Per chi tiferò? Come sempre per i più deboli»

Venerdì 24 Novembre 2023 di Pier Paolo Simonato
Don Orioldo Marson

PORDENONE - Ha giocato a lungo nel Pravisdomini, è parroco anche a Vallenoncello (oltre che a San Marco di Pordenone), dirige la Casa dello studente, ama il calcio e ha la "lingua dritta", come direbbero gli indiani d'America. Monsignor Orioldo Marson, classe 1954, è uno e centomila.
Domenica alle 14.30, in Prima categoria, si giocherà proprio Vallenoncello-Pravis 1971.

I padroni di casa, pericolanti, contro i primi della classe della società nata dopo il "crollo" del vecchio club. Lui non può mancare. «Passerò certamente - sorride il sacerdote, di salda fede milanista - dalla tribuna dell'impianto di Valle».

A fare il tifo per chi?
«Neanche il saggio Salomone potrebbe rispondere a questa domanda. In generale amo sostenere chi è più in difficoltà».

Guardando la classifica, quindi, i gialloblù del Noncello.
«Così dicono i numeri».

Don, come aveva cominciato la sua carriera di atleta?
«In un piccolo mondo antico. Il Pravisdomini, la squadra del mio paese, fu fondata nel 1971. Debuttò nel campionato di Terza categoria, ma perdeva sempre. Allora io frequentavo le superiori, in Seminario a Pordenone, e tornavo a casa solo il sabato pomeriggio. L'allenatore Gabriele Barbui, che era il fornaio, all'inizio del 1972 mi chiese di aggregarmi al gruppo: aveva sentito dire che giocavo bene».

Ed era vero. Ma con quali precedenti?
«Quelli in piazzetta, con gli amici, alle 7 del mattino, prima di andare a dottrina e a scuola».

Il magistero del calcio di strada.
«Certo. E poi quello "imparato" sul vecchio campo del Seminario, intenso e tirato, dove noi studenti giocavamo tutti i giorni a pallone. Già in prima media mia madre mi aveva comprato gli scarpini chiodati. Adesso potevo averne due belle paia, con la borsa arancione e la scritta Ac Pravisdomini: era un sogno che si avverava».

Quindi era un talento naturale?
«Possiamo dire così, se volete. Naturalmente accettai l'invito, vivendo l'avventura sportiva con leggerezza, come momento d'identità e aggregazione. Volevo sperimentare lo spogliatoio: un mondo vivace, molto diverso e forse - non so come - complementare a quello della sagrestia. Non mi allenavo con i compagni, ma la domenica mi schieravano sempre titolare con la maglia numero 10».

Si sentivano tante bestemmie?
«Tante, dentro e fuori dal rettangolo. Un giorno l'arbitro, dopo averne sentita una grossa, fermò la partita: "Voglio sapere chi è stato". I compagni mi guardarono e, d'istinto, dissero in coro: "Lui". Fu una sorta di congiura amichevole. Io, da perfetto innocente, non replicai e venni ammonito».

Intanto almeno eravate migliorati?
«Migliorammo alla terza stagione, 1973-74. Crescemmo insieme, io, Loris Gabbana e Toni Marson, Danilo e Renzo, Graziano e "Schivinea", i Cesca e gli altri amici. Non c'era tattica, il mister ci diceva: "Correte e tirate". Cominciammo a vincere, il tifo crebbe, fu molto bello. Avevo superato felicemente l'esame di maturità, segnavo parecchio e mi divertivo».

Il 10, maglia dei miti: che tipo di giocatore era?
«Mezzapunta, di appoggio e sostegno, con i capelli lunghi. Amavo accarezzare la sfera, coccolarla, soprattutto con il destro. Dribbling, finte, più di qualche botta. Perdemmo a Torre all'inizio e poi le vincemmo tutte, una dietro l'altra. Alla penultima giornata disputammo lo scontro al vertice con il Visinale. Eravamo alla pari. Segnai a pochi minuti dalla fine, dopo aver ricevuto un ordine perentorio dal presidente Franco: 1-0 per noi e al 90' fu promozione in Seconda. Tutta la comunità di Pravisdomini si unì per festeggiare. Indimenticabile».

Come finì la sua carriera?
«Mi fermò un brutto infortunio a Prata, nel 1975. Frattura esposta di tibia e perone. Subii un lungo stop. Il problema fisico si unì alla successiva necessità di dare una mano ai terremotati, a San Francesco di Vito d'Asio, per la ricostruzione della frazione di Pert».

Poi tornò a vestire la gloriosa "camiseta" arancio. Quando?
«Nei campionati successivi, con meno regolarità, fino all'arrivo di una domenica del 1979, che fu per me l'ultima, con l'addio al calcio agonistico. Ero già diacono a Fiume Veneto e fui schierato in campo. La sfida, ormai verso la fine della stagione, opponeva i fiumani in brutte acque al mio Pravis. Finì 3-1 per noi, con un gol mio, e loro retrocessero in Terza. All'inizio i fedeli che seguivano la gara non mi avevano riconosciuto. Poi qualcuno cominciò a gridare: "Falso prete, vai a dire messa". Pazienza».

E adesso?
«A Valle, più volte, mi sono ritrovato a tirare due calci al pallone, con i ragazzini o da solo, dietro la canonica. Non c'è più la magia del piccolo mondo antico, ma c'è tanto volontariato sportivo, che va sempre sostenuto».
Amen.
 

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