Dalla casacca del mitico Santos con il figlio di Pelè ai piccoli ramarri: la grande sfida di Bezerra

Giovedì 9 Novembre 2023 di Pier Paolo Simonato
Fabio Bezerra

PORDENONE - Fabio Bezerra sorride sempre. Ha giocato con il più giovane dei figli di Pelè, Edson Choibi Nascimento, vestendo la gloriosa casacca bianca del mitico Santos. «Era un'altra vita - racconta - ma ne vado fiero.

Edinho è stato un buon amico e un sincero compagno di viaggio». Ora lui allena nella Seconda serie brasiliana: ultima tappa al Londrina, nel Paranà. Fabio invece è il "maestro" dei giovanissimi alfieri del Pordenone, i magnifici 10 («per il momento») che danno vita e sostanza alle formazioni di Primi calci e Piccoli amici chiamate a tenere vivo il marchio. Con relativa matricola federale. La speranza è che da loro si possa ripartire, almeno nominalmente, per ricostruire un credibile progetto neroverde.

Mister Bezerra, la sua carta d'identità?
«Ho 49 anni e sono italo-brasiliano, avendo avi calabresi - si presenta l'uomo di Porto Alegre -. Ho giocato per anni da professionista, sempre a centrocampo, prima con il Santos e poi con l'Avaì. Floriaopolis per me resta un piccolo paradiso. A un certo punto della carriera ho voluto venire in Europa, trovando il primo ingaggio in Finlandia, all'Inter Turku, in Veikkausliga. Però sognavo sempre l'Italia: l'occasione arrivò nel 2004 grazie ai veneti del Treporti. Avevo già 30 anni e a quel punto non mi pesava scendere tra i dilettanti. Fu una scelta felice».

Perché?
«Fino al 2010, sempre in Veneto, mi sono divertito. Sento il Nordest come la mia terra. Così poi ho frequentato il corso allenatori e ottenuto il patentino Uefa B».

L'arrivo a Pordenone?
«Nella stagione 2011-12: mi portò in neroverde Stefano Daniel, all'epoca responsabile del vivaio dei ramarri, affidandomi gli Esordienti a 9. Da allora ho guidato tutte le formazioni del settore giovanile, fino alla Primavera, da vice di Maurizio Domizzi. Lo scorso anno ero tornato in Brasile per un problema di salute, ora superato. Non potevo più stare lontano da Pordenone. Qui vivono i miei figli».

Cos'è il calcio per lei?
«Prima di tutto divertimento e allegria».

I suoi allievi?
«Ringrazio i dirigenti del Villanova e del San Francesco che me li hanno affidati. Sono 10 piccoli atleti, nati dal 2015 al 2018, con tanta grinta e voglia di far bene. Allenarli per me è un piacere, vedendo quanto s'impegnano. L'obiettivo è creare altre squadre a gennaio».

Sempre al De Marchi, in attesa di eventi?
«Sempre. Diciamo che lavoriamo per chi verrà».

C'è anche suo figlio Gianluca tra loro?
«No, è al Fontanafredda. Giusto così».

Vede qualcuno particolarmente promettente?
«Per il momento l'importante è che stiano bene nel gruppo: hanno una carica straordinaria. Horn Mave Buela, di 7 anni, è già veloce e tecnico».

Come sceglie i ruoli per ogni baby?
«Li costruiamo insieme, ci sarà tempo. Intanto deve essere un gioco, niente pressioni».

Lei ha vissuto "dentro" il mondo dei ramarri per più di due lustri: sintetizzando?
«Nei primi 4 anni mi sembrava di essere in una piccola Barcellona del Friuli: ambiente eccezionale, coesione, intesa. Fino al 2017 il Pordenone era una sorta di grande famiglia. Poi molte cose sono cambiate, però io ringrazierò sempre il presidente Mauro Lovisa».

Cambiate per colpa del professionismo?
«Impone scelte chiare e precise. Non sempre le ho viste».

I suoi punti di riferimento?
«Come coach Pep Guardiola. Sa dare identità a una squadra, vede ancora il calcio come un gioco e non come una guerra, riconosce i meriti degli avversari. Qui a Pordenone ho un saldo rapporto con Mirko Stefani, ora allenatore, capitano per sempre».
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci