Chiara, l'anestesista di Medici senza frontiere: «In guerra ti devi arrangiare»

Lunedì 24 Ottobre 2022 di Enrico Padovan
La dottoressa di medici senza Frontiere che combatte dove ci sono le guerre
2

UDINE - Chiara Pravisani, anestesista di Udine, divide la propria professione tra terapia intensiva, sala operatoria, elisoccorso e missioni all’estero con Medici Senza Frontiere.

Ha preso parte a quattro progetti: in Pakistan nel 2012, in Yemen nel 2016, in Siria nel 2021 e in Italia nel 2020 per il supporto alle fasce deboli nel corso della pandemia. «All’inizio, quando ho cominciato a lavorare con Msf, avevo il timore di non essere all’altezza. Qui in Italia, in ospedale, sono una degli ingranaggi, e se ho dei problemi posso chiedere aiuto a qualcuno. In missione, invece, spesso ero l’unica anestesista, dunque le competenze specialistiche dovevo gestirmele da sola». 


IN PAKISTAN
«In Pakistan sono arrivata in un progetto partito da tre mesi: siamo stati inseriti in un piccolo ospedale dove c’erano solo la medicina di base e il pronto soccorso - ricorda. - Lo abbiamo potenziato con la parte chirurgica e la sala operatoria, poi l’ostetricia e la ginecologia: ho visto praticamente nascere un ospedale. Abbiamo ricostruito le dita a tantissimi bambini. In quei contesti significa evitare l’invalidità, che è quasi una condanna a morte, perché non potranno lavorare e rimarranno a carico delle famiglie, che non riescono a occuparsene. All’estero ho visto cose che qui non avrei visto. In Italia c’è un incidente da esplosione ogni migliaia di casi, invece in Yemen i feriti di guerra erano quotidiani. Eravamo in un trauma center poco dietro la linea di fronte, e quando c’erano degli scontri a fuoco arrivavano tutti i pazienti feriti. Ho lavorato in coordinamento con tre anestesisti locali e ho imparato moltissimo da loro sulla gestione delle ferite di guerra. Vedevamo molte persone colpite da proiettili o dallo scoppio di mine. Eravamo a circa quattro ore di distanza dal fronte, quindi i casi più gravi purtroppo non arrivavano nemmeno da noi e spesso i feriti venivano portati dai familiari. Ho visto delle ferite che in Italia avremmo potuto gestire e riabilitare, mentre lì, pur essendo il centro molto sviluppato, non erano gestibili». 


LA PROTESICA
«Avevamo un reparto di protesica per la ricostruzione degli arti - racconta ancora - ma era possibile farlo solo quando l’afflusso di pazienti era limitato. L’amputazione è molto più semplice, ma ha un impatto completamente diverso sulla persona: quando arrivano insieme venticinque pazienti feriti gravemente non puoi lasciarli aspettare, perché metti a rischio la loro vita, quindi rimuovere l’arto diventa la scelta migliore. I viaggi dalla capitale ai posti di lavoro erano le fasi più pericolose: 3-4 ore attraverso i checkpoint del territorio in guerriglia - racconta Chiara - Il concetto di rischio in quei Paesi è diverso da qui: vedere la gente che gira in motorino col kalashnikov tra le gambe è assolutamente normale. Ogni giorno i capi progetto parlavano con le parti in causa per garantire la nostra sicurezza, specificando che lavoravamo per entrambe le parti».


LA NEUTRALITÀ
«Medici Senza Frontiere ha una posizione di assoluta neutralità: se curi i sunniti curi anche gli sciiti e viceversa, non si fanno distinzioni tra le fazioni in conflitto. Io non mi sono mai sentita in pericolo, ma vivere contesti diversi mi ha cambiata. In Pakistan, ad esempio, mi sono resa conto di come, girando per strada, mi sentissi molto più al sicuro portando il velo, il che mi ha fatto riflettere molto su quanto impatto abbiano avuto sulla mia mente due mesi trascorsi in quel mondo.“Grazie a quelle esperienze, ho cominciato a relativizzare tutto anche quando sono qui: mi fanno arrabbiare le cose che diamo per scontate o le piccolezze per cui ci lamentiamo. Vivere certe situazioni mi ha aiutato a capire ancora di più che chi lascia il proprio Paese per attraversare mezzo continente a piedi, percorrendo migliaia di chilometri e nascondendosi nei camion, lo fa perché c’è un motivo più che valido. Amo la mia terra e le mie radici, dunque trascorro nell’ospedale a Udine la maggior parte del mio tempo, ma ogni due - tre anni cerco di ritagliare un paio di mesi per andare in missione».

Ultimo aggiornamento: 17:18 © RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci