Se davvero si andrà nella direzione che l’Unione europea ha tracciato rispetto alla limite del 2030 per le produzioni di auto a motore tradizionale (benzina, diesel e gas) e per la conversione alle elettriche nel giro dei prossimi tredici anni in Friuli Venezia Giulia potrebbero esserci circa cinquemila posti di lavoro a rischio.
GLI ERRORI
Un provvedimento che Bruxelles ha emanato e che ora i diversi Stati membri devono fare proprio. E sul quale però il mondo industriale e produttivo ha espresso forti critiche. «Quando la politica - aggiunge il presidente Barel - anziché adottare scelte e strategie legate alla tutela ambientale fissando parametri e obiettivi dando indirizzi, entra invece nel merito della tecnologia da imporre siamo in un ambito che può diventare rischioso. Sarebbe come dire che da domani mattina non si possono più fare certi smartphone. Tutto però è ancora da definire e dovrà passare al vaglio dei singoli Paesi. Senza contare - aggiunge il numero uno del distretto regionale delle meccanica - che il tema delle batterie è molto delicato perché consegnerebbe un mercato in mano alla Cina e riaprirebbe il tema della dipendenza». Dipendenza che oggi pesa sull’elettronica e anche sulla meccanica. «Come primo dato rispetto al possibile impatto occupazionale - spiega Barel - è importante dire che il comparto e le filiere della meccanica regionale sono molto diversificate e quindi sufficientemente resilienti e in grado di “convertirsi” anche con una certa facilità se fosse necessario. Certo si tratterebbe di riconvertire in qualche modo anche molti posti di lavoro». Ma dal vertice del Cluster Comet si guarda con un certo ottimismo al rientro di parti di forniture e di produzioni legate proprio alla metalmeccanica. «Il reshoring della meccanica - va avanti il presidente del più importante polo produttivo del Fvg - è già cominciato e vede le imprese del nostro territorio pronte e recettive su questo fronte». Se c’è una cosa che la pandemia prima e la guerra poi stanno lasciando come “insegnamento” al sistema produttivo è proprio il fatto che non si possono fermare le fabbriche perché la merce è bloccata nei porti in Cina o in altre parti dell’Asia. «Se vent’anni fa sono stati fatti errori facendo della Cina la fabbrica del mondo oggi dobbiamo ripensare, riprogettare e produrre molte cose qui. Costerà di più. Ci sarà inflazione, ma va fatto». E già si è cominciato in regione e nel Nordest, in partcolare. Stanno tornando intere filiere: come quella delle macchine per agricoltura e delle biciclette. Due esempi. «Ma ci sono multinazionali - conclude Barel - che stanno riportando in Europa e in Italia pezzi di produzione che consentiranno a tante imprese di diventare nuovi fornitori».