La professoressa di chimica: «Una vita ricordando mio nonno Busonera, medico partigiano impiccato dai fascisti a Padova»

Giovedì 18 Gennaio 2024 di Gabriele Pipia
Busonera

PADOVA - La professoressa Marina Busonera si presenta all’appuntamento per l’intervista tenendo con sé una tesina di maturità. «Mio figlio è approdato agli esami portando una ricerca sul suo bisnonno. Questa storia impregna completamente tutta la nostra famiglia». Marina Busonera insegna chimica all’istituto Marconi e porta un cognome legato indissolubilmente alla storia della città. Suo nonno era Flavio Busonera, medico partigiano impiccato dai fascisti il 17 agosto 1944 in via Santa Lucia.

Quest’anno ricorre l’ottantesimo anniversario. A Busonera sono intitolati l’ospedale Iov e una strada in centro a Padova, ma anche una via, una galleria e una scuola di Abano.

Marina, partiamo ricostruendo l’albero genealogico.
«Flavio Busonera, medico condotto arrivato in Veneto dalla Sardegna, aveva quattro figli: Giannina, Gianni, Mariateresa e Francesco. Io sono la figlia di Gianni e la nipote di Flavio. Lo avrei chiamato nonno se avessi potuto conoscerlo. Sono ancora vivi Francesco e Mariateresa, che a 97 anni è lucidissima e gioca a bridge».

Cosa le ha raccontato suo padre?
«Praticamente niente, non ha mai voluto parlarne perché evidentemente era un dolore troppo grande. Nel 1944 lui aveva 21 anni e studiava Medicina, proprio sulle orme del nonno. Quando imprigionarono mio nonno al carcere dei Paolotti mio padre fu costretto dalla nonna a nascondersi all’ospedale al Lido perché rischiava di finire dentro anche lui. Non ha più potuto rivedere suo padre».

E per tutta la vita si è portato dietro quel dolore.
«Ha sempre avuto gli occhi azzurri malinconici e credo di aver quella malinconia anche io. Tutta la vita della nostra famiglia si incastra con questo dolore enorme».

Cosa ricorda della sua infanzia?
«Quando avevo cinque anni, trovai dentro un cassetto l’immagine della forca con cui mio nonno era stato impiccato. Fin da bambina capii che avevo un nonno eroe e capii perché mio padre preferiva non parlarne».

A raccontarle tutto sono stati gli zii...
«Francesco mi spiegò gli aspetti storici, Mariateresa invece il lato umano: le storie sulla vita da medico di mio nonno, il fatto che tante persone erano vive grazie a lui. Mi insegnò anche “Bella ciao” che inizialmente credevo fosse una canzone fatta apposta per mio nonno. Da bambina ho iniziato a mettere assieme i racconti come i tasselli di un puzzle».

Ha rimpianti per non aver parlato di tutto ciò con suo padre?
«Avrei voluto fargli tante domande, ma non ne ho mai avuto il coraggio perché capivo la sua profonda sofferenza. Se n’è andato nel 1995, per colpa di una malattia secondo me causata anche da tutto questo dolore mai espresso».

Le resta il grande orgoglio di chiamarsi Busonera...
«Sì, capisco che Flavio non è solo mio nonno. Il Comune di Padova lo ricorda ogni 17 agosto, ci sono libri che parlano di lui, alla scuola di Monteortone i bambini vengono istruiti sulla figura di questo medico e poi disegnano delle vignette sulla sua vita. Bello vedere bambini impegnati a ricordare un fatto così vecchio».

E oggi cosa le dà dolore?
«Pensare che c’è gente nostalgica del fascismo, anche se mio padre mi ha sempre insegnato a non cercare vendette».

E passare in via Santa Lucia cosa le provoca?
«Mi viene il battito più accelerato, guardo la lapide con affetto e ringrazio. Oggi la mia missione è far crescere studenti con dei valori. Alle quinte faccio un’ora di educazione civica parlando di mio nonno».

Come è arrivata a fare l’insegnante?
«Avevo una mamma maestra, ma volevo lavorare in ospedale e fare la differenza come mio nonno. Mi sono laureata in chimica e tecnologie farmaceutiche, alla fine ho preso questo lavoro e iniziato ad amarlo. Per quattordici anni al Meucci di Cittadella e ora al Marconi, avendo sempre avendo un grandissimo rapporto con gli alunni. Sono severa e do anche i 4, ma con dispiacere e loro lo sanno».

A casa vi sono rimasti cimeli?
«Foto, medaglie e documenti. Ho deciso di portare tutto all’archivio di via del Santo dove c’è tutto quello che lo riguarda, come il suo diploma di laurea».

E sua nonna chi era?
«Maria Borghesan di Noale. Si erano conosciuti su un traghetto per la Sardegna, per sei anni si videro una volta all’anno ma il loro era grandissimo amore. Lui andava a raccattare le armi, portava gli ebrei in svizzera con la macchina, portava gli americani a prendere i sommergibili. Si metteva sempre in pericolo e lei era preoccupata per lui. Alla fine ha vissuto a lungo, fino a 88 anni».

L’eredità più grande di Flavio?
«La bontà e il coraggio. Quando un fascista gli mise il cappio al collo, lui disse: “Tu tremi, io no”. Quella forza in qualche modo me l’ha trasmessa: anche io non ho mai paura e so che non devo mai girarmi dall’altra parte. Mi sento di non potermi permettere di essere pavida perché sono sua nipote».

Ultimo aggiornamento: 18:59 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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