Padova. La chirurga Gaya Spolverato: «Con la medicina mi prendo cura degli altri. Poter salvare una vita è una cosa incredibile»

Venerdì 5 Gennaio 2024 di Riccardo Magagna
Gaya Spolverato

PADOVA - In una società dove il dibattito sul ruolo femminile e sulla disparità in campo professionale è sempre molto sentito ci sono donne padovane che con impegno e talento fanno carriera e si ritagliano un ruolo di assoluto prestigio. Un esempio arriva dalla trentanovenne chirurga oncologa Gaya Spolverato, professoressa dell’Università di Padova dove è anche delegata dalla rettrice Mapelli alle Pari opportunità. Lavora in Azienda ospedaliera ed è in prima linea anche con “Women in Surgery Italia”, l’associazione delle chirurghe da lei co-fondata. 

Qual è stata la miccia che ha fatto scattare in lei la voglia di diventare una chirurga? 
«Il prendersi cura di un’altra persona mi ha spinto a iscrivermi alla facoltà di Medicina.

Il desiderio di diventare chirurga nasce invece dalla voglia di fare qualcosa che sia immediatamente efficace per una persona. Avere la possibilità di salvare la vita di qualcuno per me è qualcosa di incredibile. Ma il tema della cura si spinge anche laddove non si possa salvare una persona, ma si cerchi comunque di dargli tutto quello che è nelle nostre possibilità». 

Cosa vuol dire fare la chirurga oncologa oggi? 
«Molto spesso significa complessità. Complessità umana nella gestione dei casi, grande complessità tecnica nella gestione dei pazienti difficili in cui i tempi e le opzioni terapeutiche sono ristretti. Vuol dire anche valutare percorsi differenti, continuare la ricerca e cercare una qualità del trattamento differente supportati dall’innovazione tecnologica che permette di offrire un approccio molto più dedicato al paziente». 

È stata a lungo a studiare e lavorare anche negli Stati Uniti. Quali differenze ha notato tra la sanità americana e quella italiana? 
«Sono aziende che viaggiano su due piani diversi. In America ci sono impegni e incarichi ben stabiliti e a livello amministrativo è un portento: il tempo dei chirurghi è controllato e gestibile, quando lavoravo negli Stati Uniti sapevo di avere tre giorni di sala operatoria, un giorno di ambulatorio, un giorno di solo attività di ricerca e quei tempi erano imprescindibili. La sanità italiana è eccellente ma forse risente di un sistema che è un po’ meno strutturato e che ha meno aiuti amministrativi. Ci sono meno figure di mezzo che aiuterebbero molto nell’organizzazione del lavoro come i physician assistant (assistenti del medico) che negli Stati Uniti mantengono il contatto con i pazienti e con le loro famiglie». 

Chi sono i suoi esempi di vita? 
«Mamma e papà. Il fatto che io venga da una famiglia dedita all’impegno e al duro lavoro è la mia più grande fortuna. Questo mi permette di togliermi il camice da chirurga e tornare a casa sentendomi orgogliosamente solo Gaya. Se domani facessi un altro lavoro, la mia famiglia sarebbe felice a prescindere sapendo che io sto bene. I miei genitori non avevano niente, neanche l’acqua calda o la luce in casa. Sono entrambi cresciuti in famiglie numerose e per questo si sono sempre presi cura di qualcun altro». 

Si è mai sentita discriminata in quanto donna? 
«La discriminazione delle donne si realizza nel continuo tentativo di ridurne la professionalità. Quello che succede nel mondo medico è quello che succede anche nelle aziende: molto spesso ai vertici ci sono figure poco sensibili a questi temi e si accettano comportamenti discriminatori nei confronti della professionalità femminile. Hanno cercato spesso di mettermi in difficoltà, non tanto dal punto di vista tecnico ma da quello caratteriale. Il rischio è che le donne che cercano l’affermazione professionale vengano accusate di prepotenza e arrivismo, mentre è difficile che questo avvenga per colleghi uomini». 

Ha mai subito molestie?
«No, ma con “Women in Surgery” abbiamo fatto un’analisi approfondita sul fenomeno. Oltre tremila tra chirurghe e specializzande in tutta Italia hanno risposto a un nostro sondaggio. Nell’ambiente chirurgico italiano il 57% delle specialiste e il 65% delle specializzande ha subito episodi di violenza fisica, psicologica o verbale. Questi sono dati allarmanti. Nel 10% dei casi queste violenze sono state perpetrate da un superiore e nella maggior parte dei casi erano poche le donne che riuscivano a denunciarle e soprattutto che vedevano un seguito alla loro denuncia».

Qual è la sfida più grande che ha affrontato come chirurga? 
«Quella che sto vivendo adesso, cioè quella di provare a far inserire una personalità come la mia che ha vissuto tanti anni all’estero in una realtà italiana piena di potenzialità. Il tema più difficile in assoluto è però la conciliazione, che si divide in due parti: quella del medico chirurgo e quella di moglie e mamma. La parte più difficile è sicuramente quella di dover sacrificare molto della mia vita personale». 

Come riesce a conciliare tutto? 
«È molto difficile non avendo mai degli orari di lavoro fissi. La mia forza sono mio marito e i nostri due figli, Achille di 4 anni e mezzo e Adelaide di un anno e mezzo. Mio marito fa l’architetto e ha una grossa realtà. È una persona forte con un senso sociale importantissimo e con un grande valore umano. È sempre presente anche quando io non ci sono».

Ultimo aggiornamento: 6 Gennaio, 10:14 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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