Il baritono Paolo Gavanelli: «La voce mi ha portato sui palchi più belli del mondo»

Mercoledì 5 Aprile 2023 di Giovanni Brunoro
Il baritono Paolo Gavanelli

MONSELICE - Paolo Gavanelli è uno dei baritoni lirici più rinomati nel panorama internazionale. Di origini emilano-romagnole, è cresciuto e si è formato a Monselice. Il suo personaggio è indissolubilmente legato al repertorio verdiano, in particolare al Rigoletto.


Quanto è legato al nostro territorio?
«Siamo emiliani e romagnoli, ma mio padre era capostazione e con la famiglia abbiamo girato un po’.

Dopo una parentesi ad Abano, ho vissuto a Monselice dai 10 ai 24 anni, l’età topica. Lì ho tanti amici, oltre a mamma, sorella e cognato. Poi, tanti anni a Selvazzano. Adesso vivo in Toscana, nel luogo di origine di mia moglie. Mi ha tanto aiutato nella vita e nella carriera».


Come ha scoperto il dono della voce?
«Avevo 14-15 anni e andavamo tutti in ferie in Sicilia. In spiaggia cantavamo “Estate” di Bruno Martino. Il fratello di mio cognato ripeteva a mia madre che avevo voce e talento e così, nel 1977, ho iniziato a prendere lezioni dal maestro Danilo Cestari. Ho debuttato nel 1983, continuando a frequentarlo fino al 1988 per affinare la tecnica. La lirica mi è sempre piaciuta: mamma e papà mi portavano alle opere anche in tenera età. I vicini di posto avevano paura che rompessi le scatole durante la recita, ma ascoltavo in religioso silenzio».


Cosa rende unico il registro di baritono?
«Dobbiamo avere le note gravi e anche le acute. Ma le differenze con i tenori restano importanti. Se il la bemolle per noi è un acuto, il tenore ci deve cantare intere frasi. Al massimo, noi lo raggiungiamo e poi torniamo giù. Comunque, i veri baritoni, con la voce scura e corposa, sono sempre più rari».


La sua carriera è stata costellata di grandi successi, soprattutto al leggendario Met di New York…
«Negli Usa ho cantato in tutti i principali teatri. Al Metropolitan ho debuttato nel 1990, sostituendo il baritono che si era ammalato. Una vicenda rocambolesca. Ero andato lì per un’audizione con James Levine e mi sono ritrovato a cantare all’apertura di stagione. Fu un trionfo e mi richiamarono per altre tre recite. La combinazione è stata fortunata, il “fattore C” innegabile, ma ho cantato bene e musicalmente sono stato un orologio. Poi al Met sono tornato per molti altri titoli e, come Rigoletto, per ben quattro stagioni».


Perché è più famoso all’estero che in Italia?
«La vera ragione non la so, ma qui non mi hanno voluto molto bene. Fatalità, le peggiori cose le ho subite dopo recensioni positive. Fine anni ‘80, eseguo il Rigoletto a Bologna. Un critico mi definisce il “vero baritono verdiano, con voce scura e brunita e non tenorile”. Già allora i baritoni veri scarseggiavano. Ma quella lode ha evidentemente toccato certi “altarini” e alcuni contesti mi hanno messo da parte. Al contrario, con le critiche negative non ho avuto problemi. Dopo una standing ovation con Rigoletto all’Arena, un giornale mi aveva paragonato al Gabibbo. Beh, a Verona ho cantato per un altro decennio buono. Ma non mi importa più nulla: quando non ci sarò più, si ascolteranno ancora i miei dischi e si guarderanno i miei video».


Qual è il problema di fondo della lirica italiana?
«Che manca onestà intellettuale e c’è gente permalosa anche tra i grandi. Se esprimi un’opinione contraria ti fanno fuori. Mi è capitato con un grande direttore d’orchestra. Stavamo provando insieme la Tosca, dove interpretavo Scarpia. Al famoso interrogatorio di Cavaradossi, cerco di invitare il pittore a miti consigli. Il passaggio declamato dice: “Via, cavaliere, riflettete”. Lo canto facendo le pause richieste dal libretto, ma il direttore mi chiede di cantarlo tutto filato. Lo faccio, ma lui legge un’espressione dubbiosa sul mio volto e mi invita a esprimermi. Gli chiedo: “Maestro, sa dove abita Cavaradossi?”. Lo vedo cercare insistentemente nel libretto, poi lo fermo: “In via cavaliere riflettete”. Ha riso, ma non mi ha più chiamato».


E adesso cosa fa?
«Ho smesso con l’opera nel 2021. Canto solo per amicizia in qualche recital e insegno al Politecnico delle arti di Bergamo. Sono entusiasta per un progetto che vedrà la luce a novembre. Canterò dal vivo delle arie di Verdi e Wagner e, con il docente di sound engineering, proietteremo lo spettro delle onde sonore prodotte dalla mia voce. Così gli spettatori vedranno le differenze tra i due autori. Poi terrò a breve una lezione all’Università di Padova: dimostreremo che l’accordatura a 432 hertz, quella di Verdi, è la migliore per quel repertorio. Oggi accordano il la a 440 o 442 hertz e la voce è più stretta, metallica e meno pastosa».


E i suoi allievi?
«Bravi e volenterosi, ma il metodo di studio è cambiato. Il mio maestro mi faceva stare su una frase anche un’ora. Ora si sorvola».
 

Ultimo aggiornamento: 08:59 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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