Nanù Galderisi: «Una vita da sognatore nel calcio dei fenomeni»

Lunedì 30 Marzo 2020 di Edoardo Pittalis
Nanù Galderisi, 57 anni
Il ragazzo è partito da Salerno per rendere felici prima Verona e poi Padova. E' il goleador del Verona dello storico scudetto nel 1985. È il trascinatore del Padova tornato in serie A dopo 32 anni, nel 1995. Il Padova lo ha anche eletto calciatore del secolo. Quando il Nordest del calcio è stato felice, è sempre passato per Nanù Galderisi, 57 anni, campano trapiantato a Villar Perosa a 13 anni. «Vivevamo di sogni, ma anche di grandi difficoltà: staccarsi dalla famiglia a quell'età non è facile, ma il sogno era più grande della nostalgia». Un figlio, Andrea Massimo, 30 anni, un passato in serie D troncato da un incidente, un presente da artista scrive musica per la tv.
Nanù ha giocato 15 campionati di fila in Italia e tre negli USA. Tre scudetti, 10 presenze in Azzurro. Fa l'allenatore, in squadra hanno scoperto un calciatore positivo al coronavirus, poi si è fermato tutto: «È dura, ma bisogna stare nelle proprie case, senza perdere la fiducia. Dobbiamo essere bravi a ripartire, ci aspetta un cambiamento notevole. La mia compagna lavora in ospedale ad Abano, so cosa vuol dire».

Quando è nata la passione per il pallone?
«È nata a Trecasali in provincia di Parma, dove i miei si erano trasferiti. Ho incominciato a giocare nel campetto dell'oratorio: si pregava, si faceva dottrina e si giocava; se non pregavi, non giocavi. I miei compagni di allora sono rimasti amici. Dopo la quinta elementare siamo ritornati a Salerno, alle medie ero già nella squadretta del Vietri sul Mare, chiamato per sostituire Francesco Della Monica che era stato appena preso tra i giovanissimi della Juventus. Ho fatto un solo provino, proprio con la Juve, a Marina di Vietri su un campo piccolino che è quasi sulla spiaggia. L'osservatore bianconero era il grande Cestmir Vycpalek, accompagnato dal nipote, un giovanissimo Zemak. Sono proprio partito forte! Dopo otto mesi è arrivata la telefonata della Juve». 

Come era la vita di un ragazzino alla scuola della Juventus? 
«Quella era una fucina di piccoli aspiranti sognatori. A 13 anni ero già a Villar Perosa con altri 45 ragazzi, si viveva come in un collegio: scuola, studio, allenamento. Così per quattro anni nei quali ho avuto una crescita incredibile. Ogni sabato veniva la Juve in ritiro, potevamo stare accanto ai campioni delle figurine. Risale a quel tempo il soprannome di Nanù, chiamavano così Della Monica che era stato dato in prestito in serie C. Stessa maglia, stesso ruolo, altezza e colore dei capelli: così sono rimasto Nanù con l'accento, se qualcuno mi chiama Giuseppe faccio fatica a girarmi. Sono stato anche fortunato, a 16 anni ho esordito in Coppa Italia a Udine nel 1979, finì 2-2, doppietta di Bettega. Ero circondato da gente che ti dava sempre l'indicazione giusta, i valori importanti, da Zoff a Furino a Bettega». 

L'emozione dell'esordio in serie A?
«C'era stato nel novembre 1980 un derby, perso contro il Toro, arbitrato da Agnolin ed era stato piuttosto movimentato, qualche espulsione di troppo e quattro squalificati: Bettega, Gentile, Furino e Tardelli. La settimana dopo Trapattoni, con problemi di formazione, a sorpresa, convocò me e Pin per la trasferta a Perugia. A 20' dalla fine, sullo 0-0, mi buttò dentro. Per il primo gol, però, dovevo aspettare il 4 gennaio successivo, contro l'Udinese».

Che squadra era quella Juventus?
«Era la Juve di Zoff-Gentile-Cabrini Ho avuto anche il piacere di giocare con Altafini e con Boninsegna. È stata una stagione strepitosa per me quella 81-'82, cesellata da tre gol al Milan il 14 febbraio, finì 3-2. Ho sostituito Bettega infortunato e Rossi squalificato per le scommesse. Avevo la fiducia di Trapattoni, da lui c'era da imparare in qualsiasi momento. Aveva visto in me uno che sognava e aveva voglia di crescere, ti dava molte carezze ma anche qualche schiaffone. Mi aveva affidato a Furino, con lui dovevo ogni giorno palleggiare e sentivo questo impegno quasi più forte della partita. Con la Juve ho vinto due scudetti e una Coppa Italia. Al primo ho contribuito con poche presenze, ma l'altro è proprio anche mio e non solo per i gol. I giornali scrissero: Il giovane Galderisi è esploso. Quell'anno la Juve vinse il suo ventesimo scudetto all'ultima partita a Catanzaro, con gol di Brady su rigore». 

Poi il miracolo dello scudetto a Verona
«Arrivò Verona nel 1983, ma non fu una sorpresa assoluta, era già una squadra che aveva una base molto solida, molti giocatori che venivano da grandi squadre. Nel 1985 arrivarono anche Briegel e Elkjaer. Vale quello che ha detto Volpato: Io non mi rendo conto di quello che abbiamo fatto, ma è il tempo ce lo dirà. E' stata una magia da tutti i punti di vista. Bagnoli con la sua semplicità e la sua ambizione riusciva a trasmetterci le cose importanti. Ho avuto la fortuna di avere maestri come lui e come il Trap, come Cesare Maldini e Enzo Bearzot, persone di una bellezza che non ha aggettivi».

L'esperienza in azzurro?
«Bearzot mi voleva già nella squadra del Mondiale '82, sono rimasto fino all'ultimo in ballottaggio con Selvaggi, io avevo 18 anni, lui più di trenta, occorreva esperienza. Poi mi ha voluto titolare nei mondiali messicani dell'86. Aveva chiamato il gruppo veronese: me, Fanna, Tricella e Di Gennaro. Prima dell'esordio mi chiamò con De Napoli: Domani giocate, al posto di Tardelli e di Rossi. Siamo usciti agli Ottavi battuti dalla Francia di Platini».

I più grandi incontrati su un campo di calcio?
«Era un calcio stratosferico, in ogni squadra italiana c'erano i migliori del mondo: Platini, Maradona, Cerezo, Falcao, Zico, Junior, Prohaska, Bertoni, Boniek, Socrates, Rummenigge Ma il più grande è stato Maradona, aveva una straordinaria sensibilità: l'ho incontrato molte volte e stupiva sempre. In Messico ha vinto un mondiale praticamente da solo. Il più grande mai visto sulla faccia della terra e ne ho visti tanti. Certo ha fatto tanti errori, ma li ha pagati tutti cari».

Dopo la parentesi col Milan di Berlusconi, il secondo miracolo calcistico: il ritorno del Padova in serie A
«Sono stato tra i primi 5 acquisti di Berlusconi, ero costato 5 miliardi di lire più il cartellino di Paolo Rossi. Non fu la mia stagione, a fine campionato l'offerta migliore arrivò dalla Lazio che voleva risalire in A e fummo subito promossi. Due anni dopo altro cambio, sempre restando in Veneto: mi voleva il Padova. Una scommessa altissima: risalire dopo 32 anni in serie A. Era difficile, la società vendeva ogni anno i pezzi migliori: Albertini, Di Livio, Benarrivo, Del Piero. Ma eravamo una squadra compatta e decisa a farcela. In tre anni ci siamo riusciti con lo spareggio a Cremona contro il Cesena, vincemmo 2-1, è stato un momento indimenticabile. L'anno dopo abbiamo fatto un campionato strepitoso in A, nelle prime cinque partite zero punti, poi abbiamo preso le misure: abbiamo battuto la Juve a Torino, il Napoli in casa. Ci siamo salvati allo spareggio contro il Genoa, a Firenze. Era una bella squadra, con l'americano Lalas che era un giocatore fisicamente molto forte, nel gruppo ci mancava solo uno che sapesse suonare la chitarra e lui era quello giusto. Grazie a lui ho avuto anche la proposta di chiudere la carriera negli Stati Uniti, dove ho incominciato ad appassionarmi al mestiere di allenatore. Ma Padova è indimenticabile anche per una grande soddisfazione arrivata dopo tanti anni: quando c'è stato il centenario del Padova, Nereo Rocco è stato eletto allenatore del secolo e io giocatore del secolo. Cosa poteva sognare di più il bambino che giocava nell'oratorio di Trecasali?».
 
Ultimo aggiornamento: 14:53 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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