Il vescovo Marangoni: «Opere e progetti vanno condivisi con i cittadini». Profughi e guerra: «Francesco isolato»

Beatificazione di papa Luciani: "Siamo in gioiosa attesa". Nuovi poveri: "Non diamo deleghe in bianco, esprimiamoci come comunità"

Sabato 16 Aprile 2022 di Giovanni Santin
La galleria Comelico e il vescovo Marangoni
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BELLUNO - Dalla guerra e l'emergenza profughi alla diocesi, dal sinodo alla montagna che muore. Passando per le crisi aziendali e papa Luciani. Il vescovo di Belluno Feltre monsignor Renato Marangoni riflette su quanto sta accadendo in provincia e lontano da noi.

Eccellenza, Belluno e l'Italia in generale, si sono dimostrate come sempre accoglienti nei confronti dei profughi.

Che cosa possiamo fare di più?
«Di più si fa se accogliere non è solo rispondere a un'emergenza. Questo lo si fa immediatamente. Poi occorre entrare nell'esperienza dell'accoglienza e cogliere come essa ci cambi nel profondo ma anche nei risvolti culturali, sociali e politici. Dal punto di vista del cristianesimo il di più' è scoprirsi noi stessi accolti prima ancora che prendiamo l'iniziativa encomiabile di accogliere gli altri, in particolare persone come i profughi. La vita in tutte le sue manifestazioni è prima di tutto essere accolti' e lo siamo tutti. Questo è il di più da fare e da essere».

Anche le parrocchie bellunesi e il Centro Papa Luciani ospitano profughi.
«Abbiamo dato disponibilità in base al bisogno reale e alla richiesta che abbiamo ricevuto e valutato con attenzione. Abbiamo detto: ci siamo, ma desideriamo farlo in collaborazione, in alleanza con istituzioni e altri enti. Questo è decisivo! Il bisogno innanzitutto a livello provinciale era di una struttura ricettiva unitaria con un minimo di 15 posti isolabili che potesse ospitare persone positive al Covid-19. Abbiano detto, sì. Come Diocesi ci siamo con il Centro Papa Luciani, innanzitutto. Un appello per la pace. La voce di Papa Francesco è quasi solitaria nell'indicare la strada della diplomazia. Papa Francesco ha una visione grande della condivisione tra popoli, ognuno con la propria storia ma anche ognuno non senza gli altri. La via del dialogo, della diplomazia, del comprendersi a vicenda considerando senza esorcizzare le obiettive conflittualità che possono insorgere e, di conseguenza la via di un reale e concreto disarmo, è la via più concreta della convivenza umana. Papa Francesco non è un idealista, ma uno che conosce la pratica della vita e la sa attraversare e gestire. Io penso che il Papa non sia solo nel pensare così. Ci siamo anche noi. C'è tanto buon senso della gente in questo, come anche tanta sapienza del cuore».

Abbiamo ancora addosso gli effetti della pandemia, soprattutto i giovani, fragilità per le quali non c'è un vaccino. Che cosa possiamo fare? «Raccontarcelo, confidarci tutto questo. È l'opportunità per riscoprire il volto dell'altro e degli altri. In realtà questa pandemia ha contribuito a smascherarci delle presunte sicurezze acquisite. Ora nei volti c'è il soffio e il tratto della vulnerabilità. È tutto più reale e più a misura umana. Se l'abbaglio resta quello della tecnologia più avanzata e se noi ci proiettiamo in un trans-umanesimo che ignora i tratti della fragilità umana, perdiamo anche il senso dell'amare. Tutto questo si riflette fortemente nei più giovani».

Grazie alle battaglie messe in campo, le grandi crisi della Valbelluna hanno trovato soluzioni. Ma per due che si chiudono altrettante si aprono, è il caso della Diab di Longarone con 180 esuberi. Quanto dovremo ancora lottare per il diritto al lavoro? Che cosa deve cambiare?
«Su tanti fronti occorre cambiare. Ne accenno a due: dobbiamo buttarci di più nel costruirci come comunità. Il lavoro nella sua essenza porta alla comunità e la comunità a sua volta cambia il lavorare. Un secondo fronte riguarda il nostro territorio che spesso si destruttura e non riesce a tessere insieme le buone risorse che abbiamo e che siamo; non le valorizza, non le fa incontrare, occorre che la politica e le amministrazioni recuperino il loro intento prioritario che è di ordine formativo ed educativo della e nella comunità».

Le nuove povertà non smettono di bussare alle nostre porte. Che cosa è possibile fare?
«Smetterla di prenderne le distanze e di elucubrare su di esse. Occorre organizzare in senso più creativo il nostro operare comunitario, riconoscere che ci sono condizioni in cui operare che chiedono la responsabilità di tutti. Le nuove povertà riguardano tutti: serve esprimersi come comunità creando e consegnando mandati che non siano deleghe in bianco, ma laboratori di corresponsabilità. In questo modo ci si forma come cittadini!»

Ci eravamo sentiti per Natale con in primo piano la questione della galleria del Comelico. Ora tocca a Zoldo. Come frenare la morte della montagna? C'è consapevolezza che moriamo tutti?
«Io non ho soluzioni strategiche, forse bisogna mettersi insieme e lavorarci fin dagli inizi del progettare. Non si interpella la popolazione sul territorio fin dal momento in cui si cercano le idee, poi ci si scorda anche di informare e coinvolgere la gente per offrire loro opportunità di formazione. Non basta che altri pensino i progetti e che gli esperti elaborino strategie realizzatrici di un'opera comune, ma occorre pensare insieme».

A che punto è la diocesi per l'evento della beatificazione di Papa Luciani?
«Siamo in gioiosa attesa, senza folclorismi, senza eccessi formali. Papa Luciani ci ha insegnato fiducia, coraggio, sincerità e semplicità di vita. In tutto questo c'è la verità della sua vita e del suo ministero!»

Abbiamo visto un grande impegno per la fase diocesana del sinodo. Che cosa può aggiungere il Vescovo?
«Ci credo tantissimo e sono convinto che la via della sinodalità è ciò che possiamo oggi discernere dalla volontà di Dio per le nostre Chiese e per l'umanità intera. Ciò che sta capitando nel mondo ne è la comprova. Il Concilio Vaticano II aveva azzardato dire che Dio salva formando un popolo, annoverando nel suo popolo. La via dell'ognuno fa per sé è estranea alla cultura e alla spiritualità del Vangelo».

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