Gli isolani-eroi cha hanno salvato decine di vite: «Quelle urla sembravano gabbiani»

Venerdì 4 Ottobre 2013
Gli isolani-eroi cha hanno salvato decine di vite: «Quelle urla sembravano gabbiani»
LAMPEDUSA - Se fosse un giorno per eroi, sarebbe un lungo elenco.

Se centoventi bare non fossero appena arrivate da Porto Empedocle - e non basteranno, perché non basteranno - a proteggere i resti di chi ha sognato un approdo, si potrebbe parlare solo di loro, di quelli che ci hanno messo l’anima, la forza, il coraggio e un senso civico che il resto d’Europa sembra aver perduto lungo la strada.



Eppure bisogna ascoltarli, bisogna seguirli nell’incubo che hanno vissuto, che segnerà le loro vite - un équipe di psicologi si sta occupando appositamente di loro - perché attraverso quei racconti, solo attraverso quei racconti , si può avere un’idea esatta dell’orrore che ancora una volta il mare ha regalato, «la più grande strage di migranti dal dopoguerra a oggi».

Domenico, Raffaele, Grazia, Francesco, Pietro, e poi tutti quelli senza un nome, i sub di Lampedusa per fare un esempio, un gruppo esperto e affiatato, prezioso per i professionisti dei corpi di polizia, che è andato su e giù per una mattina e poi per un pomeriggio intero a salvare vite, a recuperare poveri resti che almeno qualcuno potrà piangere.

Prendiamo Grazia per tutti, lei che all’alba ha visto agitarsi nel mare decine di braccia, che ha sentito le prime grida, e ai suoi compagni di barca - una tranquilla gita notturna - ha dato l’allarme, e loro insonnoliti che tentavano di convincerla: «Saranno i gabbiani». Sì, erano gabbiani disperati, venuti dall’altra parte del mondo, a chiedere una mano che li strappasse all’inferno. E Grazia, Grazia Migliosini, 50 anni, catanese, tanto fanatica di Lampedusa da averci aperto un suo piccolo negozio, ha capito che non bisogna perdere altro tempo: erano almeno cento gli uomini, le donne e i bambini i mare, quelli che almeno lei riusciva a vedere.



«SALVATE I BAMBINI»

«Ci siamo avvicinati mentre qualcuno dava l'allarme alla Capitaneria», avrebbe raccontato più tardi a terra. «Parlavano in inglese, dicevano salvate i bambini, ci sono tanti bambini. Siamo rimasti lì tre ore. Il mio amico Marcello si è tuffato sette o otto volte per afferrare qualcuno e portarlo sotto la barca affinché potessimo tirarlo su. Ci stringevano le mani, ci dicevano grazie, grazie. Ho pianto, ho pianto tanto».

Non era ancora giorno, la macchina dei soccorsi stava per partire. Ma ancora prima di quella macchina si son mossi, dal loro peschereccio, Domenico e Raffaele Colapinto, e il nipote Francesco. Per tutti e tre parla Domenico, che fa i suoi conti da vecchio pescatore: «Venti corpi abbiamo recuperato, diciotto vivi e due morti». Ma l’anima è squarciata: «Ho pianto, ho pensato che una vergogna così non può ripetersi». Eppoi il senso d'impotenza «nel vedere tutte quelle persone che avevano bisogno di aiuto e capire che non potevamo salvarle tutte». Domenico è provato, neppure la sua scorza ha retto: «Li prendevamo e ci scappavano dalla mani perché erano mani e braccia scivolosi per la nafta che avevano toccato. Sì, li ho visti quanti erano tutti insieme, forse quattrocento, quattrocentocinquanta. Chissà quanti morti ci sono ancora da recuperare». E avrà ragione lui, i conti tremendi di questi giornata gli daranno purtroppo ragione.



IL MEDICO BARTOLO

Loro salvavano vite - Domenico e suo fratello, e il nipote, e Grazia con gli amici -, e Pietro s’era appena svegliato. Pietro Bartolo, 57 anni, una moglie e tre figli, il medico responsabile del poliambulatorio dell’isola, uno che le ha viste tutte e pure non ne immaginava una così, uno che avrebbe voluto una giornata così nemmeno sorgesse: «Quello che ho visto oggi è una tragedia senza precedenti, sia per il numero di vittime sia per le modalità», dice scuotendo la testa dopo avere visitato l’hangar dell'aeroporto dove sono stati allineati i primi 93 cadaveri - sarebbero diventati 103 - recuperati in mare.

Bartolo è un piccolo monumento vivente. Tre anni fa, per dirne una, s’è improvvisato ginecologo per far nascere due lampedusani veri, due neonati partoriti da un'etiope e da una nigeriana, giunte sui barconi quando già erano in fase di travaglio. L’avvenimento è assolutamente straordinario perché ormai da vent’anni le donne di Lampedusa partoriscono a Palermo oppure ad Agrigento.



LAMPEDUSANO DOC

Ma ieri c’è era solo da far fronte all’orrore. Lui, lampedusano doc con laurea in medicina all’università di Catania, ha lavorato senza sosta per ore muovendosi tra barelle, coperte termiche, ambulanze, ma soprattutto tra decine di morti, prima raccolti sul molo Favaloro e poi trasferiti all'aeroporto. E lui e i suoi uomini hanno fatto anche una specie di miracolo: hanno salvato una ragazza etiope che i primi soccorritori avevano dato per morta, distesa sul molo a fianco delle altre vittime. Era ancora viva, invece. C'è stato solo il tempo di rianimarla, intubarla e trasferirla con l'elisoccorso all'ospedale Civico di Palermo.



Manca Giusi, però, a questa piccola lista. Giusi Nicolini, sindaco dell’isola, la donna che avreste visto tutti accanto a Papa Francesco il giorno della sua visita a Lampedusa. Ha gridato al mondo, per tutto il giorno la sua indignazione, ha invocato «corridoi umanitari», s’è presa il sostegno e l’apprezzamento di Letta e Boldrini. E quando s’è trovata di fronte Alfano, all’aeroporto, neanche lui ha risparmiato: «Ma lo sa che anche questa è Italia?».
Ultimo aggiornamento: 08:50 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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