Dal 600 il vestirsi in un certo modo , con finalità prettamente estetiche interpretate come linguaggio comunicativo, diventa la moda come noi la conosciamo ancora . Ma davvero la conosciamo? E’ pratica quasi quotidiana leggere informazioni che vertono sempre su un punto di domanda sena risposta: chi la inventa la moda? Gli stilisti? La gente? I media? Il cinema, la televisione?
La moda, ovvero il modo di vestirsi che uno stilista di oggi decide di interpretare in realtà non nasce come un quadro nella mente dell’artista ma è la conseguenza di un vissuto, di un “visto”, soprattutto è una intuizione che in alcuni casi si è trasformata nella pagina fortunata di un’invenzione . Lo stilista è uno psicologo, un comunicatore, certamente un artista, ma proprio per questo è attento ad ogni muover di foglia. Capta situazioni che potrebbero sembrare atteggiamenti passeggeri dettati da questa o quella tendenza ideologica, politica, sociale e le trasforma in oggetto possibilmente “politicamente scorretto”: un vestito, una tendenza, un accessorio speciale. E’ accaduto così negli anni Sessanta del secolo scorso, con l’imporsi improvviso della minigonna di Mary Quant, che non l’aveva “inventata”. era nell’aria e già Courreges , prima di lei (ma ancora troppo presto) aveva intuito che le gambe femminili , fino allora tenute sotto protezìone da gonne lunghe fino al ginocchio o ai polpacci o alla caviglia, o più recentemente dai pantaloni , avevano voglia di libertà. Il messaggio sociale raccolto dagli stilisti di moda firmava l’avanzata del “nuovo senza riserve”, anche senza limiti. Certo, era Fuori tutto ( quasi anche i glutei!): un bisogno che esprimeva l’esigenza sociale di sovvertire regole e tradizioni. Essere significava contestare, capovolgere, violare. Ecco, iniziava il bisogno di violare, cancellare, demolire, scoprire, che non si è ancora stemperato.
Anche oggi la moda cerca di interpretare il messaggio del nostro tempo , ostacolata dalla pandemia che rende tutto “meno” importante, persino l’attualità di richieste sociali che fanno fatica a raccogliere udienza globale . La confusione sessuale, l’incertezza dell’identità di genere, che stanno alimentando diatribe, scontri, accuse di fanatismo o di conservatorismo, di snobismo attivista o di rifiuto del diverso, ha influenzato la moda di queste ultime stagioni che ha puntato soprattutto , come abbiamo visto da molte delle collezi0oni presentate, in digitale o in presenza, sull’ annullamento di ogni distinzione tra moda di genere maschile o femminile. Una scommessa stilistica che solo il tempo ci consentirà di verificare se vincente o no. Ciò che conta per gli stilisti emergenti è l’adeguamento alle teorie più avveniristiche, è andare oltre, comunque vada. Non tutti i moti rivoluzionari vincono davvero.
Cambiare solo per cambiare resta una soluzione facile ma discutibile: in questi giorni ci sta provando una griffe dell’eleganza attuale, Gucci , con una foto scattata ai due guru che detengono le redini della Maison. Accanto allo stilista Alessandro Michele (in look Gucci asessuato, bisessuato , comunque not normal ) , l’Amministratore Delegato della Maison , Marco Bizzarri , in completo very british, un bellissimo apparentemente tradizionale “principe di Galles”, con l’aria di “ chi sa di vincere”, evidenzia , cucita in bella vista all’esterno della manica della giacca e con il nome di Gucci ingigantito, l’etichetta di fabbricazione dell’abito, che nel passato, per discrezione, veniva applicata dove meno si rendesse visibile. Il nuovo look “tamarro” esalta come ultimo trendy un’usanza che fino a ieri era prerogativa dei malvestiti, di quelli che con degnevolezza venivano chiamati “ paesani” o , con linguaggio volgare, “ bifolchi” , perché indossando un vestito nuovo rigorosamente “di firma”, si preoccupano di ostentarne la provenienza, ovvero il valore, ovvero ...il costo, esibiti come trofei, come testimonianza di conquista sociale. Il nuovo look “tamarro” di Gucci, è forse uno degli ultimi “ruggiti” , sempre più deboli , della moda che deve stupire , scandalizzare, trasgredire ad ogni costo, in attesa di qualcosa di nuovo davvero da inventare o di qualche look d’antan - meno buzzurro - da rivisitare.
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