La staffetta d'oro/ Le quattro atlete più italiane dei nostri politici

Martedì 3 Luglio 2018 di Mario Ajello
Non sono la risposta a Pontida. Non sono la risposta a Salvini. Tanto è vero che è stato uno dei primi a festeggiare la vittoria di Libania Grenot, Ayomida Folorunso, Raphaela Lukudo, Mariabenedicta Chigboul, le quattro italianissime ragazze di colore che hanno vinto la staffetta. 

E in più, il leader leghista le vuole incontrare, magari le candiderà al Senato - come ha già fatto con Toni Iwobi, il responsabile leghista per il tema dell’immigrazione che è d’origine nigeriana - mentre il Pd, da Renzi a tutti gli altri, rivendica la vittoria delle ragazze di colore dicendo sui social e ovunque: “Ecco l’Italia che vogliamo”. 
Semmai questa bella pagina di sport è la risposta a chi, come Mario Balotelli o Roberto Saviano, che subito le sta strumentalizzando, professano un multiculturalismo facile e propagandistico. E accusano di razzismo chi non si piega a certa retorica. I sorrisi delle quattro atlete sono quelli di un Paese che sa accogliere e che ha dimostrato di sapere integrare, quando l’integrazione non avviene a spese di chi viene accolto e di chi accoglie e si fonda viceversa sul gradualismo del melting pot virtuoso, su una visione politica e culturale aperta al futuro ma senza facile buonismo, che è una forma di irresponsabilità e addirittura di cattiveria. Gli sbarchi sono una cosa e le quattro ragazze azzurre un’altra; l’immigrazione clandestina è un problema politico e sociale gigantesco, e il colore della pelle degli italiani non è un problema. 

L’Italia meticcia, quella del siamo tutti figli di Annibale (come cantavano gli Almanegretta), quella che si vede - solo per fare un esempio - nel cimitero di San Gennaro sprofondato nelle viscere di Napoli e in cui i cognomi dei sepolti riassumono tante migrazioni e integrazioni tipiche del Dna italiano, è una realtà positiva se si è capaci di governarla, e a patto che ci si senta consapevoli del processo in corso e non lo si abbandoni a una malintesa visione cristiana. Che oltretutto proprio nelle messe della domenica, interpellando i presenti sulla bomba incontrollata dell’immigrazione, nessuno sembra condividere più. Talvolta, neanche il prete dal suo pulpito. 

L’errore più banale, di fronte alle quattro ragazze italiane di pelle nera, è cominciare da loro per combattere Salvini. Attizzando un improprio derby destra-sinistra. Quello che, naturalmente, s’è subito scatenato. Con il rischio di svilire l’entusiasmo popolare super social - valanghe di foto delle atlete, diluvio di complimenti, grande orgoglio neo-patriottico come non si vedeva da tempo - per un successo dell’Italia che guarda avanti. E che contraddice nei fatti e nei volti chi vuole rappresentarla come la riproposizione impossibile - suvvia, serietà! - di quella del Ventennio sulla base del pregiudizio assurdo per cui il fascismo con tanto della sua pretesa purezza etnica è “eterno”, come diceva sbagliando Umberto Eco. Semmai, occorre guardarsi dal razzismo al contrario. Senza fare delle quattro campionesse un feticcio da opposizione. Basterebbe riconoscerle per quello che sono: la riprova che, con pragmatismo e laicismo, sì può ma non si deve per imposizione ideologica e per ossequio alla correttezza politica. 
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