La mostra in realtà è un trionfo del "fake", della copia, della citazione spinta all'inverosimile. Dal mondo classico a Kafka ai cartoni animati di Walt Disney. Ma Hirst non è Banksy, e così tutto diventa marketing, tutto si replica e tutto si può vendere. Cosa dire del Pippo ricoperto di uno spesso strato di conchiglie? O delle false monete d'oro romane, dei falsi scudi ed elmi achei, che fanno tanto Odissea, come pure il Minotauro che violenta una donna in un angolo? Una colossale operazione mediatica, che diverte ma non incanta. In fondo, tutto si basa su una notizia falsa, così come le nostre vite vengono decise da improvvisi "fake" virali che decidono il risultato di elezioni.
Hirst vuole essere la sirena dell'arte (ce n'è una azzurra, all'aperto, si vede da Piazza San Marco) e come Crono che divora i suoi figli (c'è anche lui) vuole cannibalizzare il mercato; non male per l'artista venuto da Bristol e che ha avuto il suo grande lancio negli anni Novanta, aiutato da Charles Saatchi.
I temi sono quelli di sempre, ma stavolta abbagliano, si ripetono, sembrano voler stordire per il troppo rumore. La morte appare sempre sullo sfondo, come un memento mori la riproducibilità dell'arte è onnipresente, nelle copie che vorrebbero essere meglio degli originali. A vedere i Bronzi di Riace (quelli veri, e splendidi) non va mai nessuno apposta a Reggio Calabria; ma tanti andranno a vedere il maestro del falso, capace di sedurre con le sue repliche incrostate di coralli e molluschi.