Maci, un secolo da gigante del rugby

Venerdì 18 Ottobre 2019
IL PERSONAGGIO
Bidello nella vita, professore nel rugby. Con questo azzeccato contrasto il centro studi MondOvale sintetizza la figura di Mario Battaglini nel sottotitolo della sua mostra 100 anni Maci, che apre oggi alle ore 18 a Rovigo. Ma lui è stato molto di più. A partire dal soprannome, diventato più importante di nome e cognome come accade solo alle icone.
Maci è il diminutivo di Macistin, «come l'ha ribattezzato la madre a pochi mesi di vita vista la stazza» svela Marco Pastonesi nella biografia La leggenda di Maci (Rcs, 2002). Un piccolo Maciste che come quello di celluloide, inventato da Gabriele D'Annunzio sceneggiatore del film Cabiria (1913), da grande diventa eroe popolare nell'Italia sportiva uscita dalla guerra. Grazie alla sua forza, l'1,85 circa d'altezza vale i 2 metri d'oggi, e alla sua totale identificazione con il rugby come strumento di espressione istintiva, affermazione sociale e riscatto dalla fame. Un idolo divenuto leggenda per la morte a soli 51 anni, il 1° gennaio 1971, per le conseguenze di una caduta in bicicletta sulla strada ghiacciata.
PALADINO DEL RUGBY PLEBEO
Mario Battaglini nasce a Rovigo il 20 ottobre 1919 giorno di fiera (un segno del destino) nel quartiere popolare di San Bortolo. Da qui vengono tanti altri pionieri del rugby, dandogli quella connotazione plebea unica in Italia, rispetto alle estrazioni ricche, nobili e borghesi di altre città. Scrive Elvis Lucchese nel saggio Gli esordi del rugby in Veneto (Hoggar, 2017): «La maggior parte dei rugbisti rodigini svolge lavori di fatica (facchino, carbonaio, spazzino). Rispetto agli avversari, perlopiù studenti universitari, un vantaggio netto in termini di predisposizione allo sforzo e al sacrificio. Vantaggio che la squadra capitalizza in risultati in campo».
È il quarto di sei fratelli e sorelle. Francesco, 7 anni più grande, fa parte del gruppo dei 12 apostoli che il 22 marzo 1935 si raccolgono intorno al Webb Ellis rodigino Dino Lanzoni quando porta in città la prima palla ovale. Maci come i giovani dell'epoca pratica tanti sport, per esuberanza fisica e spinta dell'educazione fascista: atletica leggera (12 metri nel lancio del peso, 45 nel giavellotto), calcio, nuoto, ciclismo, basket, pugilato. La leggenda vuole che nello stesso giorno disputi una partita di calcio il mattino, una di rugby il pomeriggio, un incontro di boxe la sera. A portarlo al rugby nel novembre 1936 è un ufficiale della milizia federale fascista. Dal 1937 è in pianta stabile nella squadra capace di conquistare 19 vittorie consecutive e come Gil (Gioventù italiana del Littorio) di vincere a Forlì nel 1939, altro anniversario tondo, il primo titolo italiano di Rovigo che fa innamorare del rugby la città. È quello giovanile, l'attuale under 18.
Maci nella finale vinta 14-0 sul Milano gioca terza linea. Segna un drop e un calcio dimostrando qualità al piede, oltre a potenza, dinamismo tipici del ruolo e all'innata dote di leadership che ne fa per tutta la carriera il capobranco dentro e fuori dal campo. Lo nota proprio l'Amatori Milano, la Juventus del rugby con 9 scudetti su 11 campionati italiani fino ad allora disputati, e lo ingaggia insieme al compagno Vittorio Dall'Ara, centro. Nella metropoli gli trovano un posto d'autista (nella scheda militare la professione indicata è facchino) e a 20 anni nel 1940 vince lo scudetto della stella da protagonista: 13 presenze, 102 punti sui 382 segnati della squadra. Secondo Luciano Ravagnani in Una città in mischia (Ipag, 1987): «È forse il primo prof del rugby italiano. Il suo mestiere è sempre stato il rugby, fin da quando aveva 16 anni». La scuola la lascia infatti in 2ª elementare, come molti all'epoca.
Il 1940 è anche l'anno del debutto in Nazionale, primo rodigino: il 14 aprile 1940 a Bucarest, sconfitta 3-0 contro la Romania. In tutto giocherà solo cinque volte in azzurro, una da capitano, ma bastano per segnare un'era. Un primato in Nazionale lo vanta anche il fratello Checco: a 36 anni e 14 giorni è il più vecchio esordiente di sempre. Anche un terzo Battaglini, Ercole detto Renato, gioca a rugby e tira di boxe. Muore nel 1941 a soli 17 anni, per una malattia forse aggravata dai colpi del ring. La guerra porta poi Maci al fronte, nei Balcani e nella tragica campagna di Russia, dove ottiene una Croce al Valore Militare per il coraggio dimostrato nel bonificare il terreno dalle mine nemiche. Torna in tempo per vincere il secondo scudetto a Milano (1943) e poi consacrarsi stella con altri due primati: l'esperienza in Francia e gli scudetti a Rovigo.
ANCHE IN FRANCIA
In Francia Battaglini gioca due stagioni a Vienne, a 30 km da Lione, e una a Tolone. Qui il talento grezzo dalle enormi potenzialità si trasforma in campione a tutti gli effetti. La Francia è un altro mondo rugbistico, come oggi. La possibilità di misurarsi con i migliori giocatori d'Europa, epici i duelli con Jean Prat (Monsieur rugbì) o Robert Soro, lo fa crescere tecnicamente e nella lettura del gioco. La sua capacità di piazzare di punta da 60 metri entusiasma i tifosi. Gli articoli dei giornali, conservati in un librone dalla la figlia Marisa (l'altra si chiama Mara), lo definiscono Le grand Battà o Le roi des buteurs (Il re dei calciatori).
Se Maci avesse preso la cittadinanza francese sarebbe finito dritto al Cinque Nazioni. Ma la nostalgia è più forte dell'ambizione. Lo fa tornare a Rovigo dove da giocatore-allenatore fa vincere ai Bersaglieri, com'è chiamata la locale squadra rossoblù, i primi tre scudetti (1951, 1952, 1953). Il secondo simbolo di rinascita, dopo la rovinosa alluvione. Nel quarto (1954) è avversario con il Treviso, dove approda per il viscerale rapporto amore-odio con la società della sua città. Atteggiamento che ha fatto anch'esso scuola nelle generazioni successive.
L'ETERNO RITORNO
Però Rovigo è sempre Rovigo è il modo in cui spiega ogni volta il ritorno. L'ultimo per compiere a 36 anni l'impresa più grande del rugby pionieristico. Il 29 dicembre 1955 i Bersaglieri, rinforzati da tre trevigiani, rifilano alla Selezione universitaria del Sudafrica l'unica sconfitta del primo tour in Italia della squadra di un grande Paese. Il 15-8 porta la sua firma con due calci e, soprattutto, con l'arringa nello spogliatoio del vecchio stadio Tre Martiri ancora tramandata nei racconti. Chiusa dopo aver descritto i rivali come imbattibili con un prosaico Però deso ndemo fora e i ciavemo!.
Era lo spirito di Maci. Pragmatico, ruvido e travolgente in campo come ai tavoli del bar Luce, dove passava le giornate a giocare a carte e fare schemi sui tovaglioli, o nelle goliardiche trasferte. Ma anche burbero e tenero, come quando trovato il posto da bidello diventa il gigante buono dei ragazzini a cui incute timore e dispensa senso di protezione allo stesso tempo. Di quest'era sono anche gli altri tre scudetti da allenatore delle Fiamme Padova (1958, 1959, 1960) o quelli dove contribuisce a tenere in serie A un Rovigo in crisi (1965-69). Avrebbe potuto dare ancora tanto al rugby. Ma quella maledetta caduta in bicicletta l'ha portato via troppo presto.
A ricordarlo restano un monumento, uno stadio a lui intitolato, il faccione disegnato sulla una tribuna, il trofeo La sporta di Maci (riproduzione della sua borsa da gioco) legame fra le città venete dove ha portato il verbo, libri, documentari, mostre, una maglia al museo nazionale Fango e sudore di Artena (Roma). Ma soprattutto un memoria sempre viva, che a cent'anni dalla nascita alimenta la sua leggenda.
Ivan Malfatto
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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