L'INTERVISTA
La sua è una lingua sospesa, come in fondo sospesi sono i suoi

Giovedì 21 Marzo 2019
L'INTERVISTA
La sua è una lingua sospesa, come in fondo sospesi sono i suoi personaggi, sempre sul limite di un baratro su questioni di identità, anche se alimentati da personalità molto diverse. Emanuela Canepa, romana di nascita e padovana di adozione, si è fatta conoscere per il bell'esordio de L'animale femmina (Einaudi, pag 260, euro 17,50), pubblicazione preceduta dal Premio Calvino, vinto nel 2017. La dialettica attiva è quella tra Rosita e Ludovico, suo datore di lavoro. Al centro di questo dialogo sta il cuore del romanzo.
L'animale femmina mette in luce delle discriminazioni di genere che non sembrano superate. Crede sia così?
«Che le discriminazioni di genere siano una realtà operante, e più seria di quanto non sia stato per la generazione di mia madre, credo sia una realtà sotto gli occhi di tutti. Vale da ogni punto di vista: relazionale, lavorativo, politico e sociologico. Però non era mia intenzione scrivere un romanzo ideologico, non sono il genere di narratore che ci tiene a dimostrare un teorema. Mi interessava raccontare una storia in cui un personaggio femminile, cresciuto all'interno di un'educazione strettamente vincolata, non rinuncia a sperimentarsi anche all'interno di scenari diversi».
In tutti e due i protagonisti comunque aleggia il fatto che qualsiasi repressione emotiva conduce a una distorta prensilità del mondo e di se stessi.
«Questo è senz'altro un tema su cui volevo riflettere, una palude in cui ho fatto affogare ripetutamente Rosita. Che ha tutto quel che serve per essere felice determinazione, forza d'animo, il senso della sua vocazione eppure vive senza riuscire a liberarsi della tara genetica che le hanno inculcato. Quella che le dà la certezza di non valere nulla e la spinge sempre in un angolo, ad accontentarsi delle briciole. E in fondo è vero anche per Ludovico. Però con lui sono meno indulgente, sebbene poi sia un personaggio per cui ho provato una certa simpatia, malgrado la ferocia. A differenza di Rosita, Ludovico non prova mai a cambiare di segno la sua vita. Preferisce passarla a covare il suo rancore. Rosita è più coraggiosa».
Lei fa un'analisi molto lucida, rispetto ai desideri dei rispettivi sessi, la donna vuole una felicità idealmente completa, l'uomo pare accontentarsi di gratificazioni più quotidiane.
«Infatti anch'io trovo sconcertante questa disparità. Dal punto di vista professionale sono poche ormai le cose che una donna davvero determinata non riesce a fare. Ma la dipendenza dall'amore, o meglio da una certa idea stilizzata dell'amore continua a renderle estremamente vulnerabili. Ne parlo spesso alle presentazioni. Lo chiamo il complesso di Sex and the City, una serie che non ho mai amato anche se su di me esercita una fascinazione perversa, una sorta di ipnosi dell'orrido. Non ho nessuna intenzione di squalificare il peso e l'importanza delle relazioni, che restano la cosa più importante della vita. Ma delegare a una relazione il senso della propria identità mi pare davvero pericoloso, e di sicuro molto riduttivo».
Sta lavorando a un prossimo libro? Se sì si tratterà sempre di un focus sui più profondi sentimenti?
«Sto consegnando la prima bozza in questi giorni. Ma poiché sono molto scaramantica la mia famiglia è davvero campana, come quella di Rosita mi scuserete se preferisco non parlarne. In generale direi che i sentimenti - e forse in senso più ampio le relazioni, e il modo in cui ci definiscono e in cui quindi cerchiamo di manipolarle cercando di farle corrispondere a una certa idea che abbiamo di noi stessi - costituiscono sempre il mio interesse principale».
Mary Barbara Tolusso
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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