Il tennista convertito al vino

Lunedì 28 Maggio 2018
Il tennista convertito al vino
L'INTERVISTA
«Volevo fare tre cose quando ero ragazzo. Prima il tennista, ho smesso quando mi sono reso conto che non sarei mai diventato Borg. Poi il cantautore, ma quando ho capito che non sarei mai stato Guccini ho conservato la chitarra. Infine, il pilota automobilistico, avevo uno zio che correva con Nuvolari: guido bene, ma ho vinto solo qualche ritiro di patente. La vita ha deciso per me, a vent'anni ho dovuto lasciare gli studi e occuparmi dell'azienda dopo la morte di mio padre. Gli avevo promesso che sarei andato avanti: almeno in questo ce l'ho fatta».
Sandro Bottega, nato a Conegliano, 55 anni, dirige con i fratelli Barbara e Stefano un'azienda che fattura 60 milioni di euro e produce ogni anno 16 milioni di bottiglie tra grappa, liquori, spumanti e vini. L'85% del fatturato è esportato in 140 paesi. L'ultimo premio un mese fa a Toronto: il prestigioso Riedel Wine Maker of the Year, riservato ai grandi del mondo del vino. Distilleria, cantina e azienda sono a Bibano di Godega di Sant'Urbano, sulla Pontebbana, in una grande casa colonica ottocentesca, di fronte alla pista di Belcorvo dalla quale cento anni fa partivano gli aeroplani austriaci per bombardare le linee italiane sul Piave. I tronchi cavi dei gelsi erano il deposito delle bombe.
Vigneti tra Bibano, Vittorio Veneto e Follina, la zona del Prosecco. Altri nella Valpolicella e nel Chianti e una cantina a Montalcino.
Come incomincia la storia dei Bottega?
«Mio padre Aldo era figlio d'arte, nostro nonno era stato uno storico mediatore di vini di Pieve di Soligo e aveva perso tutto nella Grande Crisi del 1929. Dopo la guerra mio padre aveva lavorato per Andrea Da Ponte, da camionista a direttore. Si era messo in proprio e nel 1977 aveva comprato una piccola distilleria, ma non ha fatto in tempo a vederla crescere: è morto nel 1983 per un tumore e io ho dovuto lasciare gli studi e prendere in mano l'azienda, miei fratelli Barbara e Stefano avevano 15 e 13 anni. Si producevano 15 mila bottiglie di grappa, un fatturato di 50 milioni, ma c'era da pagare un mutuo da 25 milioni. La prima volta che sono andato a Trento in un'enoteca a vendere grappa ho finito per comprarne una bottiglia! Mi ha salvato Lunelli, quello dello spumante Ferrari, comprando 24 bottiglie di grappa di Chardonnay. Ho creato subito la Grappa delle Aquile dedicata a papà».
A proposito di quei sogni da ragazzo?
«Visto che non potevo diventare un grande tennista, ho pensato di fare il cantautore, suonavo la chitarra in un gruppo punk di Conegliano, canzoni di De Andrè, De Gregori, soprattutto di Guccini. L'ultimo gruppo col quale ho suonato si chiamava Alexander, ho chiuso con un concerto e una mia canzone a Napoli nel 1997 a Castel dell'Ovo. Al Vinitaly di quest'anno un cantante mi ha portato una foto di quel concerto: eravamo tutti vestiti di verde!».
Resta il terzo desiderio
«Mio zio Celeste aveva la patente numero 123 della provincia di Treviso, i suoi racconti con Nuvolari mi hanno sedotto, inseguimenti e sorpassi a fari spenti come diceva la leggenda. Soprattutto sognavo una vera auto tutta mia. Penso di guidare ancora bene, non ho mai avuto un incidente, solo ritiri di patente».
Come si è fatto strada in un settore affollato di concorrenti?
«Con l'innovazione dentro la tradizione. Nel 1985 ho introdotto la novità delle bottiglie in vetro soffiato che creiamo in una nostra vetreria e questo ha portato notorietà e aumento del fatturato: mi sono regalato come premio un viaggio a Palma di Maiorca. Due anni dopo abbiamo incominciato col Prosecco, l'ho chiamato il Vino dei Poeti perché era quello che portavo a Roma, al Circolo del Flaminio, dove ogni domenica ci trovavamo con Mario Luzi, Mario Soldati, Alberto Moravia, Carlo Della Corte e Sandro Zanotto. L'amicizia con Soldati mi ha messo in contatto con Stefania Sandrelli che aveva un vigneto in Toscana e con la quale siamo diventati soci per produrre il Chianti. Ci vuole anche un po' di fortuna: nel 1989 ho conosciuto un ex generale dell'Esercito che aveva aperto un'enoteca a Sorrento, con i suoi limoni è nato il limoncello alla veneta, a base di grappa. Oggi facciamo un Gin italiano con bacche di ginepro della Toscana, limoni di Sicilia, salvia del Veneto, acqua delle Alpi».
Dite che vi copiano bottiglie e prodotti
«A volte nel mondo un brevetto non basta per proteggere i tuoi prodotti. Dal 1994, per esempio, lottiamo per tutelare un'altra idea, legata al Fragolino e suggerita dall'amico Sandro Zanotto. Siccome produrre questo vino non è legale, allora ho trovato una strada che mi permise di avere un successo incredibile: è nata una categoria di prodotti che non c'era, la bevanda aromatizzata a base di vino. Anche grazie a questo l'azienda toccò i 15 miliardi di lire di fatturato. Si aggiunse il vino dell'amore nato per la clientela canadese: un moscato dei Colli Euganei del quale vengono esaltati aromi di pesca e miele, una dolcezza che mi sembrò come l'amore, forte all'inizio, molto meno alla lunga. È un vino che si vende ovunque, nei duty free è al primo posto tra i vini e spumanti. Ci hanno sempre copiato in tanti, abbiamo un libro che si chiama il Libro delle imitazioni, negli ultimi anni abbiamo speso 600 mila euro di avvocati per proteggere il nostro marchio e i nostri brevetti».
C'è anche uno stile Bottega per le bottiglie
«Le novità spesso nascono da scoperte casuali. Una volta ero in Puglia nel ristorante del fratello di un ex difensore della Juventus, Nicola Caricola, ma anche Carmelo era stato un buon giocatore col Bari. Aveva un collezione di bottiglie di champagne che sembravano tutte uguali, una sola si distingueva, era sotto la luce e brillava. Pensai che dovevo verniciare le nostre bottiglie. Era il 2001, incominciai con la grappa e la bottiglia vinse il premio per il miglior prodotto; tre anni dopo a Natale lanciai il Prosecco in bottiglia dorata: è il concetto di lusso accessibile, oggi ne facciamo un milione di bottiglie. Per Hiroshima abbiamo creato una grappa con una bottiglia che ha all'interno la colomba della pace in vetro, per aiutare il museo della città simbolo della tragedia nucleare».
Cosa rappresenta oggi il Prosecco per il Veneto?
«Negli anni '80 si cercava di fare un prosecco che fosse un'imitazione dello champagne, invece di esaltarne gli aromi tipici delle sue uve. Il prosecco si è trovato al posto giusto al momento giusto, aiutato anche dalla crescita straordinaria della cucina italiana nel mondo. In Francia ci sono 7 mila ristoranti italiani, a Tokio sono 6 mila. Quanto alla cucina contesto soprattutto quegli chef che passano troppo poco tempo a cercare l'ingrediente. Ha ragione Arrigo Cipriani, il patron dell'Harry's Bar, quando dice che gli chef non fanno più il loro mestiere ma sono sempre in tv; e sul fatto che l'espressione della vera cucina italiana è la trattoria e che il segreto è nell'accoglienza».
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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