Il 13 Giugno 1971, esattamente cinquant' anni fa, il New York Times cominciò

Sabato 12 Giugno 2021
Il 13 Giugno 1971, esattamente cinquant' anni fa, il New York Times cominciò a pubblicare i Pentagon Papers, documenti militari che ricostruivano l'inizio della guerra in Vietnam. Il clamore fu enorme, perché rivelavano che dal 1945 in poi tutti i presidenti americani avevano raccontato, sul Sudest asiatico, una serie di bugie: il loro obiettivo non era quello nobile di garantire la libertà dei vietnamiti, coreani ecc. ma quello più pragmatico di contenere l'avanzata della Cina.
LA DENUNCIA
L'autore della pubblicazione, Daniel Ellsberg fu denunciato, peraltro senza seguito, e anni dopo ne fu tratto anche un film. In realtà quei quaderni non contenevano granché: erano stati commissionati nel 1967 dal ministro della difesa Robert McNamara, nominato a suo tempo da Kennedy, come resoconto storico di quella guerra che stava diventando impopolare, e di cui peraltro recava buon parte di responsabilità. Quanto agli obiettivi dei presidenti potevano anche essere connessi: impedire che la Cina si mangiasse quei paesi significava anche garantire la loro libertà.
La stampa italiana non vi prestò molta attenzione, anche perché nutriva consolidati pregiudizi che nulla sarebbe riuscito a schiodare : quella di sinistra vedeva nei vietcong i partigiani della liberazione; quella di destra i manutengoli dell'aggressione comunista; e quella di centro un groviglio inestricabile dal quale bisognava stare alla larga. Il concetto di questa equidistanza fu espresso dall'onorevole Moro, che manifestò comprensione per l'alleato d'oltreoceano.
L'analisi più acuta sulla genesi di quel conflitto era già stata fatta dal nostro commentatore più autorevole, Augusto Guerriero, alias Ricciardetto. L'America, aveva scritto, si era impantanata in una guerra perduta in partenza. Ma vi era stata coinvolta proprio da Kennedy, che aveva prima sostenuto il corrotto Dngo Dinh Diem, per poi farlo eliminare con un colpo di stato. Dopodiché aveva mandato quindicimila consiglieri militari: troppi per consigliare, troppo pochi per combattere, e abbastanza per consolidare un impegno irreversibile. L'errore fu aggravato dal suo successore Lyndon Johnson , anch'egli democratico, che adottò la famigerata teoria dell'escalation, cioè l'invio progressivo di truppe secondo le esigenze crescenti, che il generale Gallois definì ironicamente «à petits paquets». In effetti una simile scelta contrasta con la più elementare strategia, che impone di colpire subito, e duro, con il massimo delle forze disponibili.
I GALLONI
Il comandante americano, generale Westmoreland, si era guadagnato i galloni nella seconda guerra mondiale, in un terreno e con un nemico affatto diversi, e non era adatto a combattere la guerriglia: quando servivano centomila uomini ne chiedeva cinquantamila e ne riceveva la metà. E quella metà aveva le mani legate: niente bombardamenti su certi obiettivi e niente sconfinamenti in certi territori. L'ordine era «ricerca e distruggi»: superfluo dire che nella giungla vietnamita, dove i vietcong erano di casa, i boys americani abituati alle praterie del middle west o agli ingorghi delle metropoli cercavano invano e non trovavano nulla.
LA CONDUZIONE
Così, quando McNamara commissionò i Pentagon papers gli americani credevano ormai poco nell'utilità di quella guerra e ancor meno nel modo di condurla. Poi, nel febbraio del 1968, scoppio l'offensiva del Tet. Le forze del nord occuparono mezzo Vietnam del sud, comprese delle postazioni vitali. Gli americani reagirono e, a prezzo di gravi perdite, riconquistarono tutto. I Vietcong assediarono la base di Khe Sanh, sperando di umiliarvi gli yankees come avevano fatto con i francesi a Dhien Bien Phu. ma furono annientati dai bombardamenti dell'aviazione e dell'artiglieria. La guarnigione fu liberata da una potente colonna corazzata, come Bastogne lo era stata nel dicembre del 44, e per ironia della sorte Westmoreland fu sostituito con Creighton Abrams, che da colonnello aveva guidato i carri per liberare la cittadina belga circondata dai nazisti. Ma neanche Abrams poté far miracoli. La vittoria militare del Tet era stata una sconfitta politica, perché aveva dimostrato che quella guerra non sarebbe mai finita. I nordvietnamiti avevano le energie materiali e ideologiche per leccarsi le ferite e riprendere l'iniziativa; gli americani invece ne avevano abbastanza, e non vedevano l'ora di andarsene. Sopraffatto dagli eventi, Johnson rinunziò alla candidatura. Il suo successore, il repubblicano Richard Nixon, era stato il vice del presidente Eisenhower, che nel 52 aveva vinto le elezioni promettendo la pace in Corea.
Nixon si impegnò a chiudere il conflitto in Vietnam, e mantenne la parola. Da consumato politico sapeva che poteva farlo solo da posizioni di forza usando il bastone e la carota. La carota era l'abbandono dell'alleato sudvietnamita e il via libera alla conquista comunista. Il bastone era la minaccia di distruggere Hanoi e Haiphong se il generale Giap avesse attaccato gli americani durante il progressivo ritiro. Giap ci provò, ma Nixon scatenò una tale reazione da fargli cambiare idea: bombardò alcune dighe del Nord, facendo intendere che avrebbe allagato l'intero paese. I nordvietnamiti compresero e pazientarono. Intanto erano iniziati a Parigi i negoziati di pace, e tutti capirono che alla fine il sud sarebbe caduto come una pera matura. Il che accadde il 30 Aprile 1975, quando tutto il mondo vide l'ultimo elicottero americano sollevarsi dal tetto dell' ambasciata di Saigon mentre i nordvietnamiti vi facevano un ingresso trionfale con i giganteschi carri armati di costruzione sovietica. Soltanto i nostri intellettuali di sinistra predicavano che la lotta di liberazione era condotta con le canne di bambù contro i missili imperialisti. I comunisti erano armati dai russi e dai cinesi, talvolta anche meglio dei loro avversari.
GLI EVENTI
I Pentagon papers, ovviamente, non riportano questi ultimi eventi, si fermano al 1971. Lo scandalo che provocarono fu determinato dalla rivelazioni di quei trucchi e di quelle menzogne che sono usuali presso tutti i governi, soprattutto quando è in gioco, la sicurezza nazionale, ma che l'opinione pubblica americana considerava, e in parte considera ancora, inaccettabili in una democrazia. In realtà quelle carte più che crimini manifestano errori: il che, come è noto, in politica è assai peggio.La conclusione che ne traiamo ce la fornisce il più grande statista anglosassone di tutti i tempi. Winston Churchill non assistette - per sua fortuna - all'umiliazione americana in Vietnam e tantomeno alla pubblicazione dei papers. Ma in altre occasioni aveva già sentenziato che in guerra la verità è così preziosa che va protetta da una scorta di bugie. E quanto alla candida ingenuità degli americani, così facili a scandalizzarsi, disse amaramente, lui che era figlio di una newyorkese: «Purtroppo questi sono gli unici americani che abbiamo».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci