Perché tante persone buone vengono punite dal destino, e tanti malvagi vengono

Sabato 16 Marzo 2019
Perché tante persone buone vengono punite dal destino, e tanti malvagi vengono premiati? Esiste una giustizia a questo mondo? Se la morte ha un senso, in quanto naturale epilogo della vita, perché aggredisce tanti bambini innocenti e trattiene la sua falce da tanti sciagurati malfattori? Sono domande che, da millenni, si sono poste anche le anime sprovviste di attitudine filosofica. Ma nessuna se le è poste con la straordinaria efficacia di Giobbe, protagonista biblico noto al pubblico per la sua inesauribile pazienza.
Giobbe è un benestante devoto con sette figli e tre figlie; possiede settemila pecore, tremila cammelli cinquecento paia di buoi, cinquecento asine e una numerosa servitù. Segue scrupolosamente le leggi del Signore e si attende, come ogni buon israelita, un corrispondente trattamento benevolo. Ma Yahveh lo mette alla prova, e le disgrazie cominciano a fioccare: prima gli muoiono gli animali, poi tutti i figli. Giobbe si straccia le vesti e si rade il capo in segno di lutto, ma non si dispera, e pronunzia parole di saggezza infinita: «Nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto: sia benedetto il nome del Signore».
LA PUNIZIONE
Ma il Signore non si accontenta: lo colpisce nella salute, lo scarnifica e lo copre di piaghe. La fede del malcapitato vacilla, e dopo mille altre sciagure esplode in una rabbia blasfema: «Maledetto il giorno in cui nacqui. Perché non sono morto nel seno di mia madre?» Fino alla conclusione più amara: Dio è ingiusto. Dio diventa un avversario che premia i malvagi con una lunga vita nella ricchezza e nel benessere, e punisce i giusti con la miseria e il dolore. E a che scopo, se dopo la morte non c'è nulla? Polvere siamo, polvere ritorneremo, riflette Giobbe sconsolato. Neanche Dio potrà più soccorrerlo: «Tu mi cercherai - sospira rivolto al Cielo - ma io non ci sarò più». Neanche Dio può far rivivere i morti.
Arrivano tre amici, con pretese consolatorie e argomentazioni inconcludenti. «Nessuno è veramente giusto davanti al Signore», sostiene l'uno. «Tu non conosci i peccati che hai commesso - aggiunge l'altro - e sei punito proprio per quelli». Ma Giobbe respinge sdegnato queste sciocchezze. Lo fa secondo un principio legalistico, perché dimostra di aver sempre ottemperato a tutte le regole divine. Ma farebbe meglio, diremmo noi, se aggiungesse che il peccato e il delitto devono per definizione essere coscienti altrimenti la legge morale (e quella positiva) vanno a farsi benedire. I tre insistono, solo per essere allontanati a male parole. La pazienza di Giobbe si è esaurita anche con questi verbosi apologeti.
Allora interviene Dio. In un rombo di tuono, la sua voce risuona con inesorabile e potente severità: «Dov'eri tu quando io stabilivo i confini dell'Universo separando la luce dalle tenebre e i cieli dalle acque?» Giobbe si inginocchia e ascolta contrito la terribile paternale che si conclude più o meno così: «Tu, miserabile granello di polvere, non puoi permetterti di scandagliare le ragioni del Creatore. Adeguati, e pentiti della tua arroganza».
PROFONDITÀ
È uno dei momenti più alti della letteratura di ogni tempo: la divinità appare per chiudere la partita, non come nel dramma greco per risolvere l'enigma, ma per mostrarne l'insondabile profondità. Giobbe, annichilito dal timore e dal rimorso, si sottomette all'imperscrutabile volontà superiore, e alla fine ne viene ripagato: il Signore gli concede quattordicimila pecore, seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asini. Così ricostituita la proprietà e la fede, il penitente genera sette figli e tre figlie, vede i nipoti di quattro generazioni e muore dopo centoquarant'anni «vecchio e sazio di giorni». Riceve tutto, tranne una risposta alle sue domande.
Il finale è probabilmente interpolato: forse una graziosa concessione ad evitare un epilogo troppo categorico e brutale, che avrebbe aperto le porte al pessimismo disincantato o all'agnostica rassegnazione: due atteggiamenti che troveremo poco dopo nel signorile epicureismo dell'Ecclesiaste. Tuttavia l'animo giudaico non poteva arrestarsi in un'inerte e acritica sottomissione, e nello sforzo di conciliare la Giustizia predicata e le ingiustizie sofferte elaborò l'unica soluzione possibile, quella apocalittica. Questo mondo sarà sostituito da una catarsi cosmica: il Regno dei cieli, o Regno di Dio, dove il gran libro delle colpe e dei meriti individuali sarà squadernato definitivamente in un inappellabile Giudizio. Questo diventò il messaggio di Gesù, che avrebbe trovato una definitiva sistemazione in Paolo e nel successivo contributo neoplatonico, aprendo le straordinarie prospettive alla patristica e, alla fine, alla monumentale sintesi di San Tommaso.
COSTRUZIONE
Si può credere o meno a questa costruzione teologica che ha condizionato l'evoluzione della moderna cultura europea: ma non si può fare a meno di inchinarsi riverenti davanti allo sforzo supremo di conciliare la ragion pura con la ragion pratica, l'esprit de geometrie con l'esprit de finesse, e la razionalità con l'intuizione. Un tentativo ripreso da Benedetto XVI nel discorso di Ratisbona, che purtroppo pochi hanno letto e ancor meno hanno capito. E tuttavia, nei suoi momenti di pausa, un intelletto vivace e sensibile ritorna sempre al libro di Giobbe. Ripulito delle sue datate ingenuità, esso manifesta l'eterna ripetizione dei fatti che infliggono alle nostre aspirazioni una serie di dolorose e inspiegabili smentite, e rivela l'inquietudine di una ricerca che non troverà mai una risposta. Dopo decenni di commenti e di analisi, ogni pretesa soluzione teorica al problema dell'ingiustizia si rivela insufficiente e parziale. Un secolo e mezzo fa Ernest Renan, nella sua splendida prefazione a questo libro straordinario concluse che solo il dovere risolve tutti i dubbi e concilia tutte le opposizioni, riedificando ciò che la Ragione distrugge con la sua insistenza corrosiva; e che quindi il bene va perseguito in quanto tale, indipendentemente da una sua ricompensa. Ma anche questa è vanità e inutile illusione, perché la domanda dell'innocente tormentato dalla sorte o dalla malvagità umana rimane inevasa. Forse l'estremo rimedio alle invocazioni e ai dubbi di Giobbe è quello suggerito da Kant: se la giustizia non può essere realizzata in questo mondo, vale la pena di postularla nell'altro, garantito da Dio e dall'immortalità dell'anima. Dopo aver amministrato la giustizia umana per oltre quarant'anni, credo anch'io che questa sia l'unica soluzione ragionevole.
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