Profughi accolti e ospitati Ma la storia finisce in strada

Domenica 7 Maggio 2017
Profughi accolti e ospitati Ma la storia finisce in strada
Il sogno con cui Mohamed è partito dall'Afghanistan era quello di un lavoro, una casa, una famiglia. Con i talebani tutto questo non era possibile. Disposto a un viaggio lungo e pericoloso e a un periodo infinito di limbo fra notti all'addiaccio, ricoveri di fortuna e strutture di accoglienza, pur di conquistare l'agognato permesso di soggiorno. Un foglio di carta con la scritta rifugiato per scopi umanitari. Oggi, dopo quasi quattro anni di passione Mohamed quel foglio di carta lo ha in mano. Lo stringe forte, lo guarda, ma rispetto a prima la sua vita non è cambiata. Anzi, sotto la pioggia sta cercando un rifugio di fortuna per trascorrere la notte. Un paradosso, ma tutto vero.
Già, perchè quell'agognato permesso è un'arma a doppio taglio. La possibilità sì, di restare in Italia, ma anche un conto alla rovescia: 30 giorni per trovare una casa e un lavoro. Scaduto il mese, l'uscita immediata dai progetti di accoglienza e la battaglia per la sopravvivenza riprede come prima. La ricerca di un rifugio notturno nei parchi o in altri angoli della città senza più il diritto neppure a un pasto o a una doccia. Mohamed ha 29 anni e la voglia di andare altrove, Germania o Francia, ma è impigliato fra le contraddizioni della la burocrazia, della mancanza di lavoro e di un futuro che non vede.
Cambiano i nomi, i luoghi di partenza, ma le storie e le sofferenze sono tutte uguali. Sono quelle di alcuni dei profughi, tutti con il permesso umanitario in tasca, sgomberati due settimane fa dal parcheggio dal Centro direzionale di Pordenone ormai soprannominato Bronx. Mohamed è uno dei tanti afghani passati in questi mesi da Pordenone: arrivato dalla Libia su un barcone, ospite per qualche tempo in un centro di accoglienza pugliese e quindi arrivato a nordest su suggerimento di un connazionale. Qui le notti all'aperto, la lunga trafila, il pasto della Croce Rossa e l'attesa per il colloquio in Commissione. Poco più di sei mesi fa l'atteso permesso di soggiorno concesso per motivi umanitari è arrivato. Un traguardo, pensava, la fine delle sofferenze. In realtà è stata una finestra spalancata sul nulla. Dopo un mese, come prevede il programma, l'uscita dalla struttura nella quale era stato accolto senza un euro in tasca, senza una residenza o un domicilio perché nessun Comune ti registra all'anagrafe, poche parole d'italiano e nessuna formazione professionale. Difficile trovare un lavoro a queste condizioni.
La sua è una storia da manuale secondo la Rete solidale che aiuta i richiedenti in città e che di Mohamed ne ha incontrati tanti in questi mesi. «Durante il periodo di accoglienza - spiegano - dovrebbero frequentare corsi d'italiano, ma in moltissime delle strutture le lezioni non vengono effettuate o sono poche. La formazione professionale, poi, è inesistente: al massimo viene data loro l'opportunità di frequentare corsi da saldatori di primo livello, ma per i datori di lavoro si tratta di una qualifica che non conta». E quel che manca ai profughi (perché di profughi a questo punto si tratta), non è solo la formazione professionale e quel tanto di italiano che serve per frequentare i corsi: senza un alloggio non hanno neppure una residenza anagrafica e non hanno una carta d'identità. E così si ritrovano nuovamente per la strada, impigliati in una storia che non ha fine. A Pordenone di Mohamed ce ne sono almeno una quindicina. In tutt'Italia chissà quanti. E vivono allo stesso modo e forse peggio di chi ancora un permesso non lo ha in tasca.
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