LA TESTIMONIANZA
MONSELICE «Non abbraccio mio figlio da quando è scoppiata

Mercoledì 8 Aprile 2020
LA TESTIMONIANZA MONSELICE «Non abbraccio mio figlio da quando è scoppiata
LA TESTIMONIANZA
MONSELICE «Non abbraccio mio figlio da quando è scoppiata l'emergenza». Un'operatrice sanitaria racconta cosa significa lavorare in tempo di Coronavirus al Centro servizi anziani di Monselice, che ieri ha registrato un altro decesso tra i suoi ospiti. Un lavoro che svolge con entusiasmo e passione da diversi anni, ma che con l'emergenza si è completamente trasformato, impegnando ogni momento e pensiero della giornata e richiedendo sforzi, fisici e mentali, sempre più grandi.
«Quando il virus ha cominciato a diffondersi all'interno della struttura sono stati giorni terribili e caotici, tanto più che per una pura casualità erano assenti i vertici del Csa. - racconta Anna (nome di fantasia) - La paura, la frenesia di quei momenti non le dimenticheremo mai. Sono seguiti giorni, e poi settimane, non meno tragici. Abbiamo visto spegnersi i nostri nonnini, di cui ci eravamo tanto presi cura. Abbiamo visto contagiarsi i nostri colleghi, siamo diventati sempre meno a sbrigare tutte le mansioni necessarie all'interno della struttura. I turni, così, sono diventati massacranti. Ci logorano nel corpo e nell'anima».
Ma come si svolge una giornata tipo di un operatore del Csa? «Anzitutto, dobbiamo arrivare mezz'ora prima per vestirci: un'operazione complessa, che richiede tanto tempo e attenzione per non esporci al contagio - spiega Anna - Così bardate, per tutto il turno, non possiamo fare pipì, mangiare o bene, nemmeno rispondere al telefono. Una volta pronti, iniziamo a curare l'igiene degli ospiti. Alcuni li dobbiamo prendere in braccio, per riuscire a sollevarli e a pulire bene. E gli ammalati, oltre a raffreddore e tosse, possono avere altri problemi fisici, quindi le operazioni vanno ripetute».
Dopo l'igiene, è il momento della colazione ma «nei giorni peggiori, e sono stati quasi una decina, molti ospiti non riuscivano a mangiare e neppure a bere tanto stavano male - ricorda con un brivido Anna - Abbiamo portato delle bottigliette di quelle col tappo per bambini per riuscire a idratarli un po'. Passata la fase più acuta, molti ospiti restano deboli: dobbiamo imboccarli uno a uno. Ma noi siamo sempre in meno. E le cose da fare sempre di più. È vero che ogni anno con l'influenza viviamo alcune difficoltà. Ma questa pandemia è stata devastante».
La prova più dura è forse a livello psicologico. «Mio figlio mi ha detto che in queste situazioni viene fuori il meglio e il peggio di ognuno di noi. Penso abbia ragione - continua Anna - Come possiamo spiegare cosa si prova a vedere quello che abbiamo visto noi? Come possiamo far comprendere il dolore nel compilare la lista degli addii, attraverso la quale mettiamo in contatto con videochiamate i nostri ospiti e i loro familiari, sperando che non sia per loro l'ultima occasione di sentirsi?».
La paura più grande di Anna e degli altri operatori è forse quella di far ammalare i propri familiari. «Come possiamo raccontare il terrore che proviamo ogni volta che torniamo a casa?Appena rientro la prima cosa che faccio è entrare in doccia - spiega - Non dormo più con mio marito: camere separate. Niente abbracci o baci, né a lui né a mio figlio. Dobbiamo evitare i contatti, è questa la prova d'amore più grande di questi tempi. Questa responsabilità che avvertiamo nei confronti dei nostri cari rischia di schiacciarci. A volte la consapevolezza dei rischi che corriamo toglie quasi il fiato. E paradossalmente la fatica e lo stress quotidiano ci indeboliscono anche nel fisico e ci espongono quindi maggiormente al contagio».
«Non sappiamo quanto durerà ancora questa situazione conclude Anna - Ci sono segnali di miglioramento per i nostri ospiti, ma spero possano anche esserci maggiori aiuti per noi. Soltanto pochi giorni fa altri tre miei colleghi hanno saputo di essere positivi. Abbiamo bisogno che arrivi nuovo personale a darci man forte».
Camilla Bovo
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