«Iacovacci un esempio per i più giovani metteva tutto se stesso in questo lavoro»

Mercoledì 24 Febbraio 2021
Sono presenti in 127 sedi diplomatiche i militari dell'Arma, con «un'elevata qualificazione linguistica». E quando l'ambasciata o il consolato sono particolarmente a rischio, le sedi vengono rinforzate dai carabinieri provenienti dalla 2^ Brigata Mobile, perché super addestrati e preparati a garantire la sicurezza.
Vittorio Iacovacci era uno di questi. E il comandante del 13° Reggimento Friuli Venezia Giulia, il colonnello Saverio Ceglie, da dove lui proveniva, ricorda l'entusiasmo quando gli comunicò che sarebbe andato in Congo.
Colonnello, chi era Vittorio?
«Era un ragazzo altruista, gentile, rispettoso dei rapporti gerarchici. Ed era un bravo carabiniere, addestrato e molto preparato».
Ha chiesto lui di andare in Africa?
«Chi fa parte del nostro Reggimento sa che prima o poi andrà all'estero. E quando si è presentata la possibilità del Congo si è pensato subito a lui. Era considerato adatto a quel posto».
E come ha reagito alla notizia?
«Era felice, questo lavoro era la sua vita, il suo mondo, e lui è andato in Africa per quello. Aveva la capacità e la professionalità per farlo. Vittorio aveva il cuore a mille per l'energia che metteva nell'attività di sicurezza e di protezione dell'ambasciata. In più l'ambasciatore Attanasio era veramente una persona speciale: disponibile, gentile. Chiunque ci avrebbe lavorato volentieri».
Lo avevate sentito di recente?
«I contatti sono continui con il nostro personale che sta fuori Italia, quasi quotidiani. Era molto tranquillo, felice dell'esperienza che stava facendo».
I suoi colleghi come hanno reagito alla notizia?
«La scomparsa di Vittorio Iacovacci ha lasciato in tutti i militari del Reggimento un vuoto immenso. Era molto amato e stimato dagli altri commilitoni per il grande altruismo che ha sempre dimostrato in questi anni, ma anche per la ferma determinazione e la grande professionalità. Era molto attaccato al gruppo e alla bandiera di guerra di questo Reggimento, che racchiude la nostra storia e i nostri valori».
Come hanno saputo della morte?
«Lo hanno saputo dalla stampa, e poi hanno chiesto informazioni. Loro sanno che il rischio fa parte del nostro lavoro e bisogna essere sempre preparati anche al peggio».
Cosa si può dire a dei carabinieri ai quali viene ucciso un collega così brutalmente? Che parole si possono scegliere?
«Quando è arrivata la comunicazione ho radunato tutto il personale per spiegare quello che era successo, ma anche per ribadire che dobbiamo essere uniti, perché è il tipo di lavoro che facciamo che renda necessarie la vicinanza e la solidarietà. Tutte le volte che ho incontrato Vittorio, durante le sue attività addestrative, quando si preparava all'impiego in missione, ho sempre visto in lui una grandissima determinazione. Era un punto di riferimento per gli altri, anche per i più giovani. Un vero esempio».
Ha sentito i familiari?
«Ci sono degli uomini con loro, sono subiti andati nella casa dove è nato, per stargli vicini. Aveva una sorella e un fratello, anche lui militare. E poi una fidanzata. Sapevo che era una cosa seria, un affetto importante. Si sarebbero certamente sposati».
Quando doveva tornare dal Congo?
«Doveva rientrare a marzo, tra poco giorni. Molti suoi colleghi sono voluti venire con me a Ciampino, ad accoglierlo. Volevano esserci tutti, ma non era possibile. Con Vittorio hanno condiviso ogni emergenza, ogni difficoltà. Sono stati per un lungo periodo, ad Arquata del Tronto, nel cratere sismico ascolano. Ne ho portati con me quindici. Nel Reggimento sono colleghi ma sono soprattutto una squadra. E ognuno di loro voleva essere lì per dare l'ultimo saluto all'amico Vittorio».
C. Man.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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