«Latte e formaggi sono l'oro del Grappa»: fra le malghe del monte sacro alla Patria

Lunedì 27 Luglio 2020 di Edoardo Pittalis
«Latte e formaggi sono l'oro del Grappa»: fra le malghe del monte sacro alla Patria
Il Grappa non è soltanto un monte che sa di Patria, di guerre e di troppi morti. È terra di alpeggi, di pascoli, di malghe dove da secoli si fa il formaggio con antiche ricette. Il latte è diverso, perché i foraggi e i fiori del Grappa portano un sapore che non è quello della pianura.
La Pedemontana è tra due fiumi, il Piave e il Brenta, e a dividerla come una linea quasi perfetta è il torrente Astego. Ai piedi della montagna, dove da una parte si alza il tempio del Canova a Possagno e dall'altra buca le nuvole la punta del campanile di Asolo, la vecchia Latteria di Cavaso del Tomba produce formaggi dal 1887. Negli stessi giorni in cui un allevatore cercava di aprire un caseificio, un altro imprenditore scendeva dal Cadore con i soldi per aprire un giornale a Venezia. La vecchia Latteria e Il Gazzettino hanno la stessa età. È anche capitato che l'editore-direttore per dare una mano a contadini e allevatori abbia venduto a lettori e dipendenti sacchi di patate del Cadore e formaggio del Grappa e anche cappelli di paglia. Altri tempi, è vero, ma raccontano meglio di tante storie lo spirito che ha creato il Veneto di fine Ottocento.

La Latteria, che produceva centomila chili di burro che andavano tutti a Venezia ed erano la vera ricchezza, ha superato due guerre. Alla fine della Prima s'è inventata un formaggio: dopo Caporetto i contadini, per nascondere il formaggio agli invasori, seppellivano le forme sotto le vinacce che erano considerate materiale di scarto. Il formaggio rimasto per mesi sotto gli scarti fu chiamato Imbriago, ubriaco. La Seconda guerra lasciò più macerie anche morali, il Grappa era anche stato la trappola mortale per centinaia di partigiani. Quando nel novembre del 1945 la fabbrica rinacque come cooperativa, si mise a verbale: acquisto materiale per sostituire quello asportato dalle brigate nere e procedere alla riparazione della piccola cassaforte scassinata pure dalle brigate nere. A salvare gli impianti erano state le donne. 
Da qualche anno la Latteria Sociale Pedemontana è diventata il Centro Veneto Formaggi. Lavora 16 mila tonnellate di latte, produce migliaia di tonnellate di formaggio e ogni giorno dallo stabilimento di Cavaso del Tomba escono cinquemila forme. Il fatturato del Centro è di 15 milioni di euro, ma fa parte di un gruppo con le Latterie Vicentine che sviluppa 150 milioni di euro. A dirigere l'azienda è Gabriele Toniolo, 55 anni, di Bassano del Grappa. Due figli, la prima Giulia è già in fabbrica, tra poco sarà mamma.

Quanto ha inciso il Covid sul vostro fatturato?
«Si è sviluppato il fatturato con la grande distribuzione: un aumento nel semestre del 15%. C'è stata e c'è ancora grande richiesta, soprattutto del prodotto del territorio a pronta consegna. Ora la situazione va piano verso la normalizzazione, anche se la ristorazione è indietro e nelle zone di villeggiatura tanti devono ancora muoversi. Impossibile fare programmi. Tra le cose buone, questo periodo ci ha fatto riscoprire la bellezza del negozio sotto casa. Del resto, i supermercati veneti sono nati da casoini che hanno avuto più coraggio degli altri al momento giusto».

Cosa vuol dire puntare sui prodotti del territorio
«È la battaglia che vogliamo portare avanti: commercializzare i formaggi trasformati in stabilimenti siti nella regione e con latte di allevamenti veneti. Solo in questo modo sono veramente prodotti veneti. Noi usiamo latte esclusivamente di queste zone, al di qua del Brenta, anche da stalle di piccolissime dimensione».

Che cosa distingue un formaggio veneto?
«Si capisce se è un formaggio veneto anche solo dalla forma, ognuno ha la sua caratteristica. Come produttori ne abbiamo una prova col Morlacco e il Bastardo che sono la nostra storia casearia: il primo era chiamato così forse perché aveva il latte imbastardito, i vecchi morlacchi avevano sempre una capra nella mandria perché dicevano che portasse bene e quel latte dava il suo sapore particolare. Il Morlacco lo si deve al popolo slavo, veniva da quella che oggi è la Dalmazia, chiamato dalla Serenissima perché erano bravi soldati e soprattutto bravi agricoltori e hanno popolato la Pedemontana, portando anche razze bovine diverse, come la Burlina. Questa razza era diffusa fino al primo dopoguerra e il fascismo l'aveva fatta quasi sparire per sostituirla ovunque con la Frisona. Erano rimasti poche decine di capi, ora ne abbiamo 400 che danno il latte per il nostro formaggio. E c'è anche il Preton che era un formaggio che i nostri contadini nel dopoguerra facevano per fare omaggi, la forma più buona era destinata al prete».

Lei voleva fare questo mestiere da bambino?
«Vengo da una famiglia di casari, mio padre Battista faceva il casaro nelle malghe. Era estroverso, per fare questo lavoro dovevi avere un carattere aperto, aveva la battuta sempre pronta. Poi si è trasformato nel commerciante, sempre con la passione del formaggio e ce l'ha trasmessa. Nella famiglia una volta era così, nascevi col lavoro ed era quello. Sono cresciuto in mezzo al formaggio e ho incominciato da piccolo nei magazzini, che per la verità erano delle cantine, curando, raschiando le forme. Dopo il diploma, ho incominciato anch'io il commercio e ne sono uscito per diventare produttore fino ad acquistare una latteria». 

Ma il vecchio mondo del padre ormai era profondamente cambiato?
«Vendevo formaggio già negli Anni '80 ed era una bella guerra, c'erano in giro i casoini più anziani. La distribuzione organizzata ha cambiato quel mondo, ha imposto un altro modo di lavorare. Mi sono fatto nella grande distribuzione, con le prime catene che crescevano nel Veneto. I primi erano una novità, a Crespano c'era quello dei Prevedello e ci sembrava che dentro ci fosse tutto. Da bambini andavamo con papà anche alla sera a portare le forme e aiutare a mettere la merce negli scaffali».

Poi l'ingresso nella Latteria Pedemontana?
«Dopo aver lasciato l'azienda familiare, sono ripartito da zero vendendo formaggi, ovviamente. Ho subito costruito una filiera che cavalcasse i tempi: siamo stati i primi a immettere nel mercato i formaggi tipici veneti con certificazione, con il marchio frutti del territorio. Sette latterie producevano formaggio per noi, esclusivamente latte veneto e ricette dettate dai vecchi maestri casari. Le richieste erano tantissime e c'era bisogno di un caseificio-polmone più grosso per produrre di più. Cavaso era una buona opportunità: era una latteria che ha risentito della crisi del Duemila, ma gli impianti erano stati creati con lungimiranza. Adesso ci siamo allargati: con le Latterie Vicentine siamo i primi produttori di Asiago, i primi di caciottame e i primi di specialità venete».

Come sono oggi il mercato del latte e del formaggio?
«L'anno scorso ci sono stati picchi dovuti al prezzo alto del Grana, nella Pianura Padana il 50% del latte diventa Grana Padano. In questo momento il problema nel nostro territorio è quello del troppo latte estero. Nel settore i più esportati sono il Parmigiano, il Grana e il Gorgonzola. Noi rientriamo nella grossa distribuzione dei formaggi tipici, mandiamo all'estero il Bastardo e l'Embriago, nomi che sono evocativi dei nostri vecchi che erano emigrati negli Stati Uniti e in Sud America e in Australia e i cui nipoti e pronipoti riconoscono nomi e sapori».
Dice Romina Bortolini, feltrina, 40 anni, della direzione, laureata con una tesi sulla tutela del consumatore: Credo che le nostre aziende debbano essere legate sempre di più al territorio. Senza agricoltura soprattutto in questa zona, tra Pedemontana e Grappa, il nostro territorio diventa bosco».
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