Gianni Berengo Gardin: «Uno scatto taroccato non è una fotografia»

Giovedì 6 Maggio 2021 di Valentina Silvestrini
Gianni Berengo Gardin

Con oltre novant'anni Gianni Berengo Gardin, è uno degli occhi dell'Italia, autore di un immenso archivio di circa 2 milioni di foto. Nato nell'ottobre del 1930 a Santa Margherita Ligure, ha vissuto e lavorato a Venezia, dove ha fondato il circolo fotografico La Gondola, fondatore anche del Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia, su invito di Italo Zannier. Ha iniziato a pubblicare i suoi primi reportage nel 1954 sul settimanale Il Mondo. Ospite nei giorni scorsi di una conversazione a cura di Alvise Rampini direttore del Craf (Centro di ricerca e archiviazione della fotografia di Spilimbergo che nel 1991 gli ha conferito il premio Friuli Venezia Giulia Fotografia), Berengo Gardin è il protagonista del documentario Il ragazzo con la Leica andato in onda il 30 aprile scorso su Rai5 per la regia di Daniele Cini, prodotto da Claudia Pampinella per Talpa Produzioni, in collaborazione con Rai Cultura, con il sostegno del Ministero della Cultura.

Un lavoro che procede in parallelo all'autobiografia Gianni Berengo Gardin in parole povere curata dalla figlia Susanna e pubblicata dall'editore Contrasto.


Quale è l'effetto di vedere la propria vita nelle immagini, di diventare l'oggetto invece che il soggetto dello sguardo?
«Mia figlia, che cura il mio archivio e le mostre, ha organizzato il documentario. Io ho partecipato volentieri, ho raccontato cose della mia vita. Hanno girato talmente tante cose su di me che ne sono abbastanza abituato, tuttavia il mio narcisismo gioisce molto nel vedere la mia immagine sullo schermo».


La sua casa è una biblioteca, colma di libri, di foto e con i provini delle foto che costituiscono il suo archivio. Quali sono i numeri del suo lavoro?
«Oggi sono circa 2 milioni di fotografie (e circa 260 libri), naturalmente è fatto di foto buone, di foto cattive, di foto pessime e di buonissime».


Ci può dire qual è la sua foto che più definirebbe buonissima?
«La più venduta è la foto del 1977 quella dell'auto in Inghilterra. Quella che io più amo, però è la foto scattata nel 1960 a Venezia, Il Motoscafo. Lo è per una questione tecnica, perché ha una composizione perfetta, ma anche per ragioni affettive. Mi ricorda gli anni di Venezia, quando dopo aver finito di lavorare tornavo al Lido dove allora abitavo».


Cosa rende una foto buona?
«Le fotografie non le fanno i fotografi bensì le persone e la scena fotografata. Il fotografo deve avere l'abilità di scattare al momento giusto, ma il merito della buona fotografia va al soggetto».


Le persone nelle foto?
«Nella mia vita ho scattato molte foto sociali, nei manicomi, tra gli zingari, le foto di denuncia delle grandi navi a Venezia, i perseguitati della politica. Non sono ritratti, sono figure ambientate. I miei maestri sono stati la lezione della fotografia americana sociale della Farm Security Administration e Life, e ancora i fotografi francesi. Mi hanno insegnato la fotografia umanistica».


In che modo questa si differenzia dal reportage?
«In realtà è la stessa cosa, è la fotografia dell'uomo e della donna, di tutti i giorni, delle cose e delle persone. Perciò è importante l'ambiente assieme alla persona, sia esso il luogo di casa, del lavoro, o ambienti che raccontano il mondo e la vita quotidiana».


Come ha scelto dove andare a fotografare?
«In alcuni casi era frutto di una precisa ricerca legata a un libro ad esempio. In altri casi, è stata la fortuna, passando per una strada casualmente».


Come nel caso dei baci?
«Negli anni '45-'50 in Italia era proibito baciarsi per strada. Quando arrivai in Francia tutti lo facevano, io mi meravigliavo tantissimo, pensavo fosse una trasgressione a un divieto in vigore in tutti i Paesi, e non solo in Italia. Pertanto inizia a fotografare i baci, e questa abitudine è rimasta».


Come fu l'esperienza dentro i manicomi?
«Erano foto di denuncia, non ho mai fotografato la malattia, bensì le condizioni in cui erano tenute le persone. Quelle foto contribuirono all'approvazione della legge 180. Quando si fotografa, ci si immedesima nello scopo di dover documentare, si vedono le cose dal di fuori. Certo sono foto che impressionano e che commuovono».


Allo stesso modo lei ha fotografato grandi artisti. È un tipo di fotografia specifica?
«Quasi si trattava del backstage dei loro studi. Per Renzo Piano ho lavorato 20 anni, occupandosi delle sue costruzioni. A Venezia ho fotografato centinaia di quadri di Vedova ma anche di Santomaso. C'era un legame di amicizia più che professionale. Era un modo personale di fotografare sia la natura sia le persone sia gli ambienti, ma fotografare un artista, un paesaggio o una persona che lavora è praticamente la stessa cosa».


L'Italia degli anni Sessanta e oltre, aveva forse più contenuti secondo lei da raccontare?
«Uscivamo dalla guerra, tutto sembrava migliore. Ma ogni epoca ha delle cose interessanti e piacevoli da indagare e vedere. Oggi forse si ha poca cultura e conoscenza della nostra storia di sofferenza».


Lei oggi cosa andrebbe a indagare?
«Ci sono molte cose, i problemi dell'attualità sono molti e forse non così chiari come in passato. Allora c'era la condizione lavorativa e lo sfruttamento degli operai, oggi di altre categorie. Sarebbero argomenti da indagare e testimoniare. Tante cose sono state raggiunte, eppure per le donne c'è ancora molto da conquistare».


C'è qualcosa che ricorda con gioia della sua vita di fotografo?
«Io ricordo tutto con gioia. Appartengo a una generazione che ha subìto la guerra. La luce elettrica tutti i giorni e tutto il giorno (e non solo due ore) è una cosa meravigliosa, avere l'acqua tutti i giorni lo è. Mangiare carne quando vogliamo lo è, se arrivi da un'epoca in cui hai fatto la fame».


Gli archivi fotografici costituiscono la storia dell'Italia, ma c'è il rischio di perderli
«In Italia non si usa acquistare archivi, come accade più frequentemente all'estero, ad esempio in Francia dove lo Stato o determinati enti e banche hanno acquistato archivi di importanti fotografi francesi. Di questo sono molto preoccupato, temo che il mio archivio andrà perduto, e sarà un danno culturale per la fotografia italiana. Ho già visto andare disperse le foto di fotografi italiani importantissimi. Purtroppo non si investe nella cultura fotografica».


Il passaggio della fotografia al digitale può essere di aiuto?
«Non ho contrarietà di per sé verso il digitale, anche se ho dei dubbi sulla conservazione, poiché si stampa molto poco e in realtà non sappiamo quanto resisteranno le foto in digitale. Ma ho un'avversione fortissima per l'elaborazione digitale delle foto. Ormai quasi tutti modificano le foto, si leva un palo, o un barca, o la si aggiunge. Una foto taroccata non è più una foto, diventa un'immagine. Si può falsificare qualsiasi cosa. Penso a quanto accaduto nei mesi scorsi con l'immagine di un tombino a Roma. Motivo per cui dietro ogni mia foto metto un timbro che assicura che si tratta di una vera foto non modificata o inventata al computer».
 

Ultimo aggiornamento: 17:17 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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