Fausto Veranzio, il vescovo che inventò il paracadute

Lunedì 27 Giugno 2022 di Alberto Toso Fei
Fausto Veranzio ritratto da Matteo Bergamelli

Se Leonardo Da Vinci aveva già ipotizzato il primo paracadute come un cono di tela utile a una discesa “morbida” dall’alto, sul finire del Cinquecento lui mise a punto l’”Homo volans”, un progetto molto più simile all’attuale parapendio. Fu letterato, filosofo, storico. Fu vescovo e lessicografo. Ma è ricordato soprattutto per essere stato l’autore del “Machinae Novae”, un volume stampato a Venezia nel 1615 che comprende 49 innovazioni tecnologiche, più o meno in ogni settore allora conosciuto, ottimamente illustrate e accompagnate da una descrizione in cinque lingue: italiano, latino, tedesco, spagnolo, francese. Lui, Fausto Veranzio, non era nato a Venezia. Proveniente da una famiglia patrizia di letterati di Sebenico, città dalmata allora parte della Repubblica di Venezia, era nato su quella sponda dell’Adriatico il primo gennaio 1551 da Michele (Mihovil) Vrancich, poeta e diplomatico del regno d’Ungheria, e da Caterina Dobroevich, anch’essa discendente di una famiglia notabile.

Dopo una prima educazione e l’avvio agli studi classici nella città natale, grazie allo zio Antonio Veranzio, allora vescovo di Eger, Fausto Veranzio si formò poi a Bratislava (l’allora capitale d’Ungheria, conosciuta anche come Pozsony o Pressburgo), centro umanistico di grande levatura, per finalizzare le sue conoscenze tra Venezia e Padova, dove tra il 1568 e il 1572 studiò diritto e filosofia.

Approfondendo il pensiero aristotelico e la matematica, senza disdegnare l’ingegneria e la meccanica. Allo zio vescovo - che a un certo punto fu nominato cancelliere per l’Ungheria e la Transilvania - dovette molto: con lui viaggiò in lungo e in largo per l’Europa; soggiornò a Praga alla corte di Rodolfo II, dove entrò in contatto con Giovanni Keplero e Tycho Brahe. Dopo la morte dello zio si spostò al collegio illirico di San Girolamo a Roma e nel 1579 fu nominato amministratore dei beni vescovili a Veszprém, in Ungheria. L’anno precedente si era sposato con Maria Zar, con la quale aveva avuto una figlia e un figlio.
La morte prematura della moglie nel 1594 indusse Veranzio ad abbandonare per qualche tempo la segreteria imperiale e a trasferirsi a Venezia e, periodicamente, a Sebenico. Decise di sposare il sacerdozio. In quegli stessi anni riprese anche gli studi; nel 1595 pubblicò a Venezia il “Dictionarium quinque nobilissimarum Europae linguarum, Latinae, Italicae, Germanicae, Dalmaticae et Ungaricae”, un’opera di grande significato linguistico.
Nel 1598 fu eletto vescovo di Csanad, e si trasferì in Ungheria. Ma dieci anni più tardi si dimise dall’incarico e tornò prima a Roma e poi a Venezia dove riprese lo studio delle scienze.

A questo terzo periodo della sua vita fanno riferimento le sue opere più importanti: quelle di carattere etico, logico e religioso, scritte in dalmatico e riunite successivamente tutte assieme nella “Logica nova” del 1616 (imbastendo anche una non conclusa “Storia di Dalmazia”), e quelle legate alla sua attività di inventore. Già nel 1590 aveva ottenuto un brevetto dal senato di Venezia per una mola o mulino polifunzionale: questa sua vena inventiva fu raccolta nel “Machinae novae”, una rassegna di invenzioni tecniche di vario genere, nella quale sono raffigurati 56 tra macchinari e marchingegni vari, costruzioni, impianti, strutture ed edifici.
Non tutte le invenzioni possono dirsi create da Veranzio, che mise in opera le conoscenze accumulate durante i soggiorni in vari paesi dell’Europa; ma certo il volume colpisce per la grande eterogeneità di argomentazioni: sistemi di navigazione, mulini, attrezzi per la battitura del grano, modelli di imbarcazioni e di pozzi d’acqua, teleferiche, mole, orologi, sistemi di dragaggio, ma soprattutto i ponti - sospesi o strallati - e appunto il paracadute.
Nell’attuale Croazia il nome di Fausto Veranzio è ancora oggi legato al massimo riconoscimento nazionale in ambito tecnico-tecnologico. Durante le sue peregrinazioni, nel 1616 Veranzio decise di lasciare Roma e ritornare in Dalmazia. Morì a Venezia, dove si era fermato di passaggio, il 27 gennaio 1617. Fu sepolto sull’isola di Provicchio, di fronte a Sebenico, per sua espressa volontà.
 

Ultimo aggiornamento: 16:45 © RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci