Dalle vetrate delle navi agli esterni dei palazzi, ecco la Somec di Oscar Marchetto

Lunedì 16 Maggio 2022 di Edoardo Pittalis
Oscar Marchetto e l'esterno di un palazzo

PONTE DI PIAVE - «A volte mi fermo vicino a un canale o sulla riva di un fiume, vedo i pesci che passano e m'immagino di pescare. È anche un modo di sognare. La pesca era la mia passione da bambino, mia madre mi chiudeva in camera e io scappavo dalla finestra e tornavo la sera. A Ponte di Piave si pescavano i barbi e le marcandole che non ci sono più. Mi manca il pescare e mi manca la terra sotto i piedi: da contadino andavi scalzo, avevi le spine nei piedi, ma calpestavi l'erba».
La marcandola è la lasca, solo sul Piave la chiamano così. Capita di avere nostalgia dell'infanzia, non importa se hai girato il mondo, se fai affari in Borsa, ci sono sempre un ponte e un fiume che ti riportano a casa. Ponte di Piave è storia e ricordo, i piloni minati dopo Caporetto per frenare l'invasore; la terra che, sotto l'aratro, per decenni ha restituito elmetti, pallottole e bombe. È la fotografia dei campi allagati dalla piena del novembre 1966, quando Oscar Marchetto aveva appena due anni e la sua famiglia ammucchiò ogni cosa su un camioncino e si mise al sicuro. «Penso a quei momenti che non ci sono più e vedo questi ragazzini di oggi senza vita sociale, intenti solo a guardare il telefono. Allora giocare era contatto fisico, inseguire un pallone, fare a botte, scappare dopo aver rubato le ciliegie». Oscar Marchetto, 58 anni, nato sulla Sinistra Piave, oggi è il leader di un'azienda che commercia con tutto il mondo, produce interni di alta gamma per grandi navi e per grandi palazzi.

La sua società, la Somec, sede a San Vendemiano (Treviso), ha chiuso l'anno con un fatturato di 260 milioni di euro, in crescita del 16% sul 2021; ha già raccolto ordini per 318 milioni. E ha un progetto tutto nuovo col quale ha fatto irruzione sul mercato americano, si chiama Mestieri.


Come il pescatore è diventato imprenditore?
«Vengo da una famiglia di contadini, ho due sorelle, Ornella e Bertilla. Papà Romano e mamma Maria Luisa mandavano avanti campi e stalle. Era un'economia autosufficiente: il maiale, le galline, la mucca per il latte, il grano e il fieno per la stalla. I miei primi passi sono stati sui campi a dare una mano. Ho fatto la scuola professionale di elettronica a Motta di Livenza, mi piacevano le materie tecniche e molto la geografia, il resto meno. Proprio allora penso di aver fatto il mio primo gesto imprenditoriale. C'era il soffitto del laboratorio da rifare in cartongesso e da pitturare. Durante le vacanze facevo l'imbianchino, così mi sono proposto per lavorare gratuitamente e questo mi dava qualche credito con i professori e anche la possibilità di essere l'unico alunno ammesso a mangiare in refettorio con i docenti. Allora non trovavi lavoro se prima non avevi fatto il servizio militare, così finita la scuola mi sono arruolato nei Carabinieri, accompagnavo i detenuti e si guadagnava di più».


E il primo lavoro?
«Finita la leva mi sono comprato la Golf e l'ho subito utilizzata per il primo lavoro per una ditta di Fagarè che faceva componenti elettronici per cancelli automatici. Era un imprenditore geniale, capace di molte invenzioni perfino troppo in anticipo sui tempi, ma era convinto che il mondo dell'automazione dei cancelli fosse alla fine e voleva vendere. Ho proposto a tutti i dipendenti di metterci insieme, trovare un terzista e partire per una nuova avventura rilevando l'azienda. Per distinguerci dovevamo fare qualcosa di diverso e abbiamo pensato a ridisegnare il telecomando che era sempre nero e brutto. Abbiamo iniziato nel 1991, quindici anni dopo eravamo quotati a Milano ed esportavamo in tutto il mondo, io curavo la parte tecnica».


La Somec quando è nata?
«Nel 2013 ho deciso di vendere le quote e mi sono fatto assistere da un avvocato che è diventato un grande amico, Massimo Malvestio. Pensavo di concedermi un periodo sabbatico, lui mi ha imposto di fare l'imprenditore subito. Nel gruppo dal quale uscivo c'era un'azienda che stentava, la Somec, Sossai Meccaniche, dal nome di chi l'aveva fondata nel 1978. Faceva involucri e vetrate per navi, con piccolo fatturato ma con grande referenza presso gli armatori e la vera ricchezza era la credibilità del prodotto. Siamo tornati presto in utile e siamo cresciuti. Ma come crescere ancora? La prima cosa che mi sono chiesto è cosa c'è all'interno della nave. Allora abbiamo acquisito una società che produceva cucine per navi da crociera e nel 2018 abbiamo osato ancora: volevamo diventare una società che fa interni su navi da crociera. La nave messa in verticale diventa un palazzo, tutto quello che posso fare sulla nave posso farlo nel palazzo. Ha funzionato alla grande, con Somec ho aperto una società negli Stati Uniti, Fabbrica: dopo quattro anni ha 100 milioni di fatturato ed è diventata una delle ditte più richieste nella fascia alta. Subito dopo abbiamo acquisito altre aziende che fanno cucine professionali su ristoranti. Abbiamo diversificato dalla nave al civile e facendo sinergia con le stesse società: i 20 milioni nel 2013 sono diventati 250 milioni nel 2019, metà navi, metà civile».


Il Covid vi ha creato gravi problemi?
«Quando è arrivato il Covid ho avuto un periodo da panico, non rientravo a casa, rimanevo da solo in ufficio. Se non hai mai vissuto una pandemia, come fai a superarla se non sai quanto sarà dura, come funziona, cosa impatta? Era come da piccolo, quando scappavo dalla finestra per andare al fiume e la mamma mi scopriva sempre. Se scappavo adesso che cosa poteva succedermi? Ho cercato di strutturare la prossima evoluzione di Somec chiedendomi che cosa avrebbe fatto la gente una volta finita la pandemia: ricostruirà, avrà disponibilità, modi di vivere diversi? Ed ecco la risposta: la gente vorrà creare qualcosa di più personale. In questa direzione ci siamo mossi».


E questa idea di Mestieri?
«La chiamerei adesso la nostra missione. Abbiamo creato un incubatore di tanti artigiani italiani, del saper fare italiano dai marmi ai legnami, dai tessuti al pellame agli acciai. Sono bravissimi, ma sono troppo piccoli per affrontare il mercato estero. Così ho pensato a Mestieri, una rete di professioni e di eccellenze nella quale vogliamo coinvolgere anche l'ateneo veneziano dello Iuav. Vogliamo portare all'utente finale il saper fare italiano, mettere insieme le referenze di società che hanno una storia a volte anche ultracentenaria. Non esiste al mondo questo patrimonio. Entro quest'anno prenderanno forma i progetti, tra due anni puntiamo a 100 milioni di fatturato. Tre divisioni, cucine-interior-design, che solo negli Stati Uniti hanno un mercato globale di 20 miliardi l'anno. Ci sono spazi per molti se fai bene e c'è talmente tanto da fare che puoi solo crescere. Abbiamo almeno dieci anni di lavoro davanti, questa è la passione. Con Mario Boscain, che cura il progetto vero e proprio, individuiamo le aziende da acquisire, andiamo verso la fondazione di un archivio di storia e di tutela delle professioni artigianali. Per poterle tramandare».


Come vede l'imprenditoria a Nordest?
«La nostra cultura a Nordest deve cambiare, bisogna essere meno egoisti, iniziare ad aprire i capitali, non serve più dire con orgoglio son mi l paron!. Nei momenti di crisi devi sempre investire di più, altrimenti ti ritrovi a rincorrere. Non ho avuto la facoltà di studiare, tante cose le ho imparate dopo. Nel Veneto manca la cultura imprenditoriale e c'è questo buco di passaggio generazionale che fa paura; mancano la scuola e la formazione».


Lei parla spesso di sogno: cosa significa sognare?
«Questa è un po' la mia storia fino ai 58 anni che compirò il 6 giugno. Ho scritto anche un libro che uscirà tra poco, intitolato Non smetto mai di sognare, una lunga intervista. L'unica cosa che rimpiango è di non aver fatto prima quello che sto facendo adesso, a volte mi sento troppo vecchio per quello che ho da fare».
 

Ultimo aggiornamento: 17 Maggio, 09:56 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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