Ha cercato i tifoni ardenti sotto la cenere, come diceva Ivo Andric, e soffiandoci sopra, ha tentato di mostrare «il fuoco che ancora si nascondeva, sia nei tre ragazzi che nella Bosnia di oggi». Francesco Montagner è ancora frastornato dal Pardo d'oro che il suo Brotherhood ha appena conquistato come miglior film nella sezione Cineasti del Presente al festival di Locarno.
Non era così scontato vincere con un documentario girato in Bosnia.
«Non l'avrei mai immaginato. Anche perché tocca temi difficili, come la mascolinità tossica, i rapporti intergenerazionali, la Bosnia. Ma la giuria è stata unanime, la ringrazio ancora. Un bellissimo regalo».
Difficile girare Brotherhood?
«È stato difficilissimo farlo, abbiamo lavorato per 5 anni. E non tutti hanno creduto nel progetto sin dall'inizio. Ma alla fine, grazie anche ai produttori (Nutprodukce e la friulana Nefertiti di Nadia Trevisan e Alberto Fasulo, con Rai Cinema) ce l'abbiamo fatta. Un grande onore».
Come è stato avvicinarsi alla realtà che ha raccontato?
«Complicatissimo. Il padre all'inizio era titubante, pensava che film fosse su di lui, ma gli ho spiegato che era la storia familiare ad attirarmi. È stato un costante braccio di ferro, ma alla fine siamo riusciti a guadagnare la sua fiducia. Anche perchè a Praga ho imparato lo slavo e quindi sono riuscito a farmi capire, soprattutto con i ragazzi. Insomma, per anni ci siamo mossi in punta dei piedi per entrare in quel mondo e raccontarlo. E i tre fratelli hanno partecipato, sono stati coinvolti nelle riprese. Ragazzi meravigliosi: ora li chiamerò per condividere con loro il premio. Oltretutto il più piccolo ha talento per la recitazione e vuole diventare attore, cercherò di aiutarlo».
Un bel salto da Monastier dove è nato a Praga.
«Mi sentivo un po' prigioniero di un contesto che mi pareva inadatto alla mia crescita umana e professionale. Lo stesso sentimento di impotenza, e di ansia esistenziale, mista a una forte determinazione, che ho trovato nei tre fratelli. Curiosi come tutti gli adolescenti, ho visto in loro una forte voglia di trovare la propria strada, capire che uomo essere, abbandonando un mondo arcaico che li ha influenzati».
Quale è stato il film che l'ha spinta a voler abbracciare questo mestiere?
«Credo Il Padrino, avevo 15 o 16 anni, e mi ha molto emozionato. E alla fine, in fondo, con Brotherhood, ho fatto anche io una storia simile: un padre con tre figli che devono capire che strada seguire. In modo embrionale, all'epoca ho sentito un'urgenza, un'attrazione verso questo mondo e volevo farne parte, anche se non sapevo come».
Ha già in mente un nuovo film?
«Sono in pausa, mi godo questo bel momento dopo tante fatiche. Sto sì pensando a un'idea nuova, ancora in fase embrionale. Ma Affronterà sempre i temi che mi sono cari, come il rapporto uomo-natura, cosa significa essere uomini, la mascolinità nelle sue varie forme. Sono allegorie del mondo»
Sempre attraverso il documentario?
«Sì, credo sia la mia vocazione. Mi esprimo meglio, sento che mi fa anche crescere come essere umano. La realtà è molto più complessa di come immaginiamo, ci sorprende sempre. Il documentario mi fa sentire più libero, pone domande e offre parziali risposte. Alza il pensiero con la forza della realtà».
Ora girerà le sale con il film: arriverà anche a casa?
«Sì sì, lo voglio accompagnare nella mia terra natia. Non vedo l'ora».
E mamma e papà che hanno detto?
«Erano felicissimi, sono venuti alla premiere ed erano davvero contenti. E questo premio lo dedico anche a loro. Senza il loro sostegno non ce l'avrei fatta».