Padova. Lo psichiatra Diego De Leo: «Ho perso due figli, ora aiuto gli altri genitori»

Dopo la morte di Vittorio e Nicola in un incidente ha fondato la De Leo Fund

Giovedì 15 Giugno 2023 di Silvia Quaranta
Diego De Leo

PADOVA - Il professor Diego De Leo, 71 anni, è uno psichiatra padovano e studioso di calibro mondiale sul tema del suicidio. La sua carriera professionale è stata segnata da un evento, il suicidio di un giovane collega, che l’ha spinto a dedicare a questo argomento tutti i suoi studi successivi. La sua vita privata è stata sconvolta dal dramma della perdita di entrambi i figli, Vittorio e Nicola, scomparsi in un tragico incidente in una notte di primavera nel 2005 a Riese Pio X (Treviso) con l’amico Mattia Tindaci.

Un caso che sconvolse due province. Un dolore insuperabile, da cui tuttavia è nata la De Leo Fund, creata per abbracciare idealmente tutti coloro che stanno affrontando il dolore di una perdita improvvisa, che si tratti di suicidio, di incidenti stradali, cataclismi naturali o altro.

Professore, come ha iniziato ad avvicinarsi al tema del suicidio?
«Ero uno specializzando del terzo anno di Psichiatria e dovevo seguire uno specializzando del primo. Una persona piacevole, avevamo legato molto. Improvvisamente venni a sapere che si era tolto la vita. E questo evento è stato un punto di svolta: nei primi anni di specializzazione mi ero interessato a temi quali lo stress e le condizioni che possono favorire l’infarto. Sono aspetti che avevo trattato anche con questo collega e ricordo bene che se c’era una persona che poteva sembrare sofferente, tra i due, ero io. Lui era sportivo, giocoso, pieno di vita, con molte amicizie. La sua scomparsa mi colpì moltissimo, mi mise di fronte alla realtà di quanto è difficile scrutare dentro l’anima delle persone».

Al tempo, fra l’altro, la psichiatria era ancora vista con una certa diffidenza...
«La malattia mentale era ed è la Cenerentola della medicina, una delle scienze più trascurate. In Italia soprattutto, anche perché il tasso di suicidi è relativamente modesto rispetto ad altri Paesi. I numeri ridotti, tuttavia, non giustificano una minore attenzione: il suicidio è un evento che lascia dietro di sé una scia di dolore senza fine. Oltre alla sofferenza per la perdita, le persone tendono ad addossarsi delle colpe. In più sopravvive uno stigma ancora molto radicato, si associa il suicidio a una serie di situazioni paradigmatiche negative, si tende sempre a vedere un collegamento con la malattia mentale, quando non c’è. Semmai, la malattia è proprio una conseguenza del disagio sociale che le persone provano quando soffrono».

Una parte importante della sua carriera si è svolta in Australia, cosa l’ha condotta così lontano?
«Ho conseguito il dottorato in Olanda, dove ho avuto l’occasione di lavorare con una delle personalità più stimate per i suoi studi di settore. Per citare un esempio, faceva parte della commissione che si occupava di eutanasia per la prima volta al mondo. Mi fece entrare in un ambito di tematiche etiche e morali molto stimolante e da questo lavoro uscì una tesi fortunata, che poi si trasformò in un libro e mi aprì le porte di una consulenza per l’Organizzazione mondiale della sanità. A seguire ho intrapreso molte esperienze interessanti e quando si aprì una posizione come direttore del Centro australiano di eccellenza per la prevenzione del suicidio, a Brisbane, feci domanda. E, con mio stupore, scelsero me, uno straniero. Poi in Australia ho speso vent’anni della mia carriera».

Nel 2008 è nata la De Leo Fund…
«Un progetto dedicato al supporto dei “sopravvissuti”, quali siamo io e mia moglie Cristina. Nel 2005 abbiamo perso i nostri figli, entrambi. Un dolore immenso, insopportabile, inimmaginabile. È un miracolo se ci siamo ancora, ed è forse una speranza, quella di trovare un senso nel cercare di fare qualcosa di buono, che ci animati nel dare vita a questo progetto. È stato un modo per trovare la forza di andare avanti».

Cosa le hanno lasciato questi 15 anni di attività con l’associazione?
«Abbiamo trasformato uno spazio umano, che è quello del dolore, in una casa che le persone frequentano perché hanno trovato qualcuno che le capisce. Una casa dove non si sentono sole: nel dolore ci si convince dell’unicità della disgrazia, ti senti solo, reietto, il più sfortunato al mondo. Con la De Leo Fund, invece, abbiamo creato un luogo dove condividere questi sentimenti con altre persone che provano lo stesso dolore. E questo permette di alleggerire un poco quel peso insopportabile che si portano dietro. Quello del lutto è un linguaggio difficile da capire, se non l’hai provato. Quando ti esprimi, l’altro che ascolta pensa alla perdita fisica, ma in realtà una persona che scompare si porta dietro un universo. Farlo in qualche modo riapparire attraverso la partecipazione degli altri è molto importante. In questi anni abbiamo assistito centinaia di famiglie, che hanno trovato supporto e condivisione».

Ultimo aggiornamento: 16:51 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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