Padova. Lo street artist: «Dai disegni fuori legge alle mostre: io sono Joys»

«Le denunce? Problemi a Padova e a Venezia, ma non ho mai danneggiato nulla: la mia è arte»

Giovedì 18 Maggio 2023 di Iris Rocca
Lo street artist Joys

PADOVA - Di che colore sono i muri di casa sua? «Bianchi». E quelli del suo studio all’Arcella? «Bianchi». Nulla di strano, se a rispondere non fosse uno degli street artist italiani più noti e prolifici anche all’estero. Nella carta d’identità si legge Cristian Bovo, nato nel 1974 a Padova, professione: artista. Per tutti: Joys. «Era il mio soprannome a scuola, quando pensavo di voler diventare un perito elettrotecnico».

Poi qualcosa è andato storto?
«Tutt’altro (sorride ironico, ndr).

Nel 1992 ho iniziato ad appassionarmi al rap, a vedere in giro disegni e forme grafiche che mi attraevano e ho capito che mi sarebbe piaciuto provare a farli. Ho messo via i risparmi per le prime bombolette e iniziato in via Palestro, dove sono cresciuto. Sono stato elettricista, poi grafico, ma da dieci anni la street art mi riempie del tutto le giornate».

Dalle scritte comprensibili alle vere e proprie forme geometriche ormai note a tutti, approdate anche in tv tra le opere d’arte di “Che tempo che fa” alle spalle di Fazio.
«Ho iniziato scrivendo il mio nome: una firma con cui volevo sigillare i miei luoghi, muri, treni. È diventata poi una cifra stilistica unica con delle forme in evoluzione ora riconoscibili come mie, coperte da diritti per evitare antipatiche sciacallate. Ma come tutte le arti, anche quella di strada è in continuo divenire: potrebbe cambiare e progredire in altro modo».

Disegna a mano libera?
«La bomboletta è quasi in abbandono: comoda, ma poco salutare. Meglio l’acrilico, i prodotti ad acqua e a rullo: ci guadagno in qualità della vita anche se il procedimento è più lungo. Poi lavoro con aste, pennelli, nastri, materiali di supporto. E ovviamente impalcature. Non posso permettermi di soffrire di vertigini».

Il muro più grande?
«A Bologna l’autunno scorso: 1.400 mq e tra poco me ne attendono altri 1.600 nello stesso polo logistico».

Qui a Padova riconosciamo il suo tratto in zona industriale o in vari punti all’Arcella, fino al pieno centro con la saracinesca a lato di piazza delle Erbe. Qual è il suo rapporto con la città?
«Padova mi piace, è la mia base. Ha dei limiti immensi, ma resta il mio punto di partenza. Quando ho iniziato l’estetica era diversa e i lavori erano più gradevoli e comprensibili: dipingevamo di giorno, in una città pulita. Ricordo i primi muri, treni, rassegne, come Guizza che sguizza nel 1995. E mia mamma che si preoccupava: “Non portarmi la Polizia a casa che mi vergogno troppo”. In fondo è sempre stata orgogliosa, soprattutto due anni fa, quando saliva sul tram decorato con le stampe della mia grafica, simbolo della Biennale della StreetArt della città».

Eppure con le forze dell’ordine qualche problemino c’è stato.
«Il paradosso di noi street artist è che ci autodenunciamo mettendo la firma. E da ragazzo sei così infuocato che vuoi apporre il tuo nome dappertutto, ma non sempre ti va bene. Ho avuto problemi sia a Venezia che a Padova. Il mio reato è stato quello di delitto contro il patrimonio, 639 bis del codice penale, con l’aggravante della recidiva. Ho rischiato la galera per una casa abbandonata alla Specola, ma sono stato graziato da un giudice che ha pesato la situazione e, forse, ha anche apprezzato il mio lavoro».

Sembra voler dire che lo rifarebbe.
«Non ho mai fatto danni a nessuno e tutto mi è servito per arrivare dove sono e conoscere le persone con cui ho collaborato. Ho lasciato tanti segni, ma i lavori più belli sono quelli in libertà e condivisione con altri, dove c’è contaminazione, anche disegnando uno sopra l’altro».

Qualche lavoro è stato copiato, qualcuno coperto.
«L’importante è lasciare la propria influenza in giro. È da sempre questo il processo formativo nei graffiti: far nascere nuove cose. Se ti copiano sei nella buona strada, stai lanciando delle influenze; l’importante è che non ti coprano. Non ne faccio comunque una tragedia: tanti miei graffiti di 20 anni fa non esistono più. Ma per me la completezza arriva quando fotografo il mio lavoro terminato. Da quel momento può solo iniziare a rovinarsi e diventare altro».

Ora si sente parlare di riqualificazione urbana in tante città italiane in cui interi edifici sono dati in mano agli artisti.
«Il proposito è buono, ma spesso fanno dipingere noi per risparmiare sugli imbianchini. In ogni caso, se non viene fatta manutenzione anche sui nostri lavori, in breve tempo restano solo porcherie, con rimasugli di spray rovinati da sole ed intemperie».

E per i suoi figli com’è vivere a Padova con un padre che imbratta i muri della città?
«Hanno trascorso 20 e 17 anni con questo papà non convenzionale, amante del rap. Hanno avuto tanta pazienza e talvolta qualche privilegio nel viaggiare con me in Giordania o a New York. Ora che sono grandi, hanno i compagni che chiedono di me e questo li inorgoglisce. Di certo, da bambini, a loro non mancava mai neanche un colore».

Ultimo aggiornamento: 16:56 © RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci