Padova. Giuseppe Stefanelli, dal Petrarca alla Siamic ed ora la sfida come proprietario del Breda

Stefanelli è un manager di successo: il suo nome si lega alla storica azienda di trasporti. Da giovane trascinò il quintetto dell’Antonianum ad uno storico terzo posto nella serie A del basket

Mercoledì 24 Maggio 2023 di Luca Ingegneri
Giuseppe Stefanelli

PADOVA - «In famiglia mi accusano di non ridere mai ma non è vero. Nella vita ho avuto tante soddisfazioni, e in tutti i campi, anche se mi sembra di aver fatto poche cose. Mio padre, che è morto prima dei settant’anni, ne aveva fatte molte di più». É così che si presenta Giuseppe Stefanelli, Pino per gli amici, ottantadue anni il prossimo novembre, imprenditore di successo, con un passato da giocatore di basket ai massimi livelli ed un presente da proprietario e presidente dell’ippodromo Breda di Ponte di Brenta.

Stefanelli, da dove vogliamo cominciare?
«Lei non ci crederà ma da piccolo giocavo a calcio.

Mi divertivo con i miei coetanei negli spazi parrocchiali della Pro Pace, a due passi dalla stazione. Poi un giorno qualcuno ha appeso un paio di tabelloni da basket ai lati di un campo in terra battuta. Da lì è cominciata una passione folle per questo sport. Avevo 13-14 anni quando un compagno di scuola - Lorenzo Carbognin - mi convinse ad andare con lui all’Antonianum. Mi sentii subito a mio agio in quella straordinaria realtà sportiva ed educativa oggi purtroppo scomparsa. A quel periodo collego grandi amicizie ancora oggi vive».

La sua ascesa fu rapidissima...
«Nel 1956, alla prima esperienza agonistica, vinsi il campionato regionale allievi con il Petrarca. L’anno successivo mi trasferirono nella squadra juniores nonostante fossi ancora giovanissimo. Fu una stagione straordinaria. Un gruppo di ragazzi provenienti dalle parrocchie padovane vinse praticamente tutto. Dal torneo provinciale al regionale, dall’interregionale al nazionale. Nel 1958 facemmo il bis conquistando di nuovo lo scudetto juniores e il Petrarca fu premiato come miglior vivaio d’Italia».

Poi arrivò il momento della prima squadra...
«Nel 1959, quando avevo appena diciott’anni, fui promosso con i grandi perché avevo buone doti di rimbalzista. Quell’anno trionfammo in serie B e fummo promossi nel gotha della pallacanestro. Eravamo una squadra di studenti universitari con tanta passione e poche risorse. Pian piano abbiamo cominciato a ritagliarci un ruolo nel basket che conta iniziando a vincere anche contro la Reyer. I migliori risultati li abbiamo ottenuti nel 1965-66, con un memorabile terzo posto che il Petrarca non è più riuscito a ripetere nella sua lunghissima storia, e nel 1966-67. In quelle due annate c’era con noi Doug Moe, l’americano più forte che abbia mai giocato in Italia, il primo straniero nella storia del club. Un grandissimo amico con cui conservo tuttora ottimi rapporti e che ho incontrato in occasione del suo ultimo viaggio a Padova quattro anni fa».

Come finì quell’esperienza?
«Nel 1968-69 la squadra non girava più come negli anni precedenti. La società mi chiese di prenderla per mano e di improvvisarmi allenatore. Purtroppo non riuscimmo a salvarci nonostante schierassimo un giocatore fortissimo come Rade Korac, quello che diede il nome alla coppa europea, e dovemmo accettare la retrocessione in B. Fu il mio ultimo anno al Petrarca perché decisi di smettere. Gli impegni di lavoro crescevano e non avevo altra scelta».

Ci racconti delle sue attività imprenditoriali...
«Io provengo da studi classici, ho frequentato il Tito Livio e mi sono laureato in Giurisprudenza. Mi sono anche iscritto all’albo dei praticanti avvocati ma non ho mai esercitato la professione forense. Sono entrato da giovane nella galassia di Siamic, la società che gestiva i servizi di trasporto in Veneto, Emilia Romagna ed altre regioni. Era l’azienda di famiglia che operava in stretto contatto con Fiat. Proprio in virtù di questi rapporti nel 1971 ci fu offerto di gestire la concessionaria con sede a Mirano. Io e mio cugino Paolo ci occupammo della gestione di Stefar. Furono vent’anni di grandissimi risultati, anche perché nel frattempo - era il 1980 - rilevammo la storica carrozzeria Dalla Via di Schio, specializzata nella costruzione delle carrozze per gli autobus. E sono stato pure socio di Elettroveneta, un’azienda di primo livello nel commercio all’ingrosso di materiale elettrico».

Nel 1992 ci fu però una scissione...
«Sì, mio cugino Paolo scelse di concentrare il proprio impegno nella concessionaria Stefanelli Autobus mentre a me rimase la gestione della Stefar. Ne abbiamo mantenuto la proprietà fino al 2019 quando si è concretizzata la cessione a Campello Motors».

Per non annoiarsi ha scelto di tuffarsi a capofitto in un’altra avventura...
«Guardi, le dico sinceramente che non so per quale motivo ho acquistato le Padovanelle. Me ne avevano parlato un paio di amici e forse mi sono lasciato convincere. Non è stata una scelta razionale, la definirei piuttosto romantica, anche se i miei familiari, con una punta d’ironia, sostengono che sia colpa della demenza senile».

É pentito di avere investito tanti soldi in quell’impianto?
«Non sono pentito né preoccupato. Non ho fatto debiti ma ho investito risorse personali. Ho compiuto uno sforzo di grande generosità per i padovani, per la salvaguardia di un bene che rischiava di essere distrutto».

Cosa vuole farne?
«Sappiamo perfettamente che non può sopravvivere di sole corse di cavalli. Assieme ai miei collaboratori vorrei restituirlo alla città, creando manifestazioni e iniziative all’aria aperta all’insegna degli animali, della natura, dell’ambiente, dell’agricoltura e della musica. Siamo aperti al confronto con chi vorrà offrirci un concorso di idee».

Ultimo aggiornamento: 17:43 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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