Dopo l'incidente Bonaiti ha scalato il Nanga Parbat, il suo terzo 8mila. «Così ho sconfitto i pensieri negativi»

«Ora che ho scalato la montagna dei miei sogni da bambino non mollo: solo l'esercizio fisico può riportarmi quasi com'ero prima»

Lunedì 31 Luglio 2023 di Redazione
Nicola Bonaiti

TEOLO (PADOVA) - Nella sua casa immersa nel verde dei Colli, a Teolo, dove anche dopo l'impresa alpinistica continua quotidianamente ad allenarsi, Nicola Bonaiti è di nuovo solo. Come nelle lunghe ore vissute per tratti in estrema quota, dure e impegnative, concentrato nella gran fatica a raggiungere ma anche poi a tornare. Come nei momenti radiosi della vetta del Nanga Parbat, a 8.126 metri, più alto delle nuvole. La famiglia, moglie Michela e le tre loro figlie, toltasi il pensiero ansioso di lui in quelle difficoltà volute ma capaci di dare ineguagliabili soddisfazioni, è andata a rilassarsi al mare. Il cinquantacinquenne industriale, portato a casa il suo terzo ottomila dopo il Cho Oyu e il Lhotse, considera che i ritorni non sono affatto tutti uguali. Quello dal primo, preparato con una progressione di salite dall'America del sud al Canada e poi Europa ed Himalaya, lo aveva portato, in Tibet, a superare la fatidica soglia. Quello dal Lhotse, salito come in quest'ultima occasione insieme al vicentino Mario Vielmo, organizzatore della spedizione e nome di primissimo piano con i suoi 13 "ottomila" ora raggiunti, è stato giustamente celebrato come il conseguimento del record assoluto per un padovano, per gli 8.516 metri della montagna che fa da spalla al "re" Everest.

Questo è ancora tutto da meditare, ma finora non c'è stata, intorno a lui, accoglienza degna del gesto sportivo compiuto.

La mente in un abisso

Nicola indossa ancora le scarpe da trail running. Viene da chiedergli perché non si prende un po' di riposo totale, dopo il mese in Pakistan. «Questa cima - spiega - ha per me una storia che parte da un letto di Pronto Soccorso, dove attendevo la diagnosi di un brutto incidente stradale, io in bici, centrato da un'auto mentre tornavo a casa dal lavoro. Era l'anno del Covid, per la primavera seguente ero d'accordo con Mario di tentare appunto il Nanga Parbat. Mi dissero che potevo scordarmi per il futuro l'alta montagna ed anche le corse a piedi per i Colli, che potevo dirmi fortunato se avrei ripreso a camminare normalmente, cosa che del tutto non è ancora avvenuta. La mia mente precipitò in un abisso. Travolto dai pensieri negativi peggio ancora che da quell'auto. Sei mesi a casa dall'ufficio, due dei quali a letto, incapace di qualsiasi operazione da solo. Non mi ero mai infortunato. Ne sono uscito con un impegno personale assoluto, aiutato da chi mi ha seguito nel lungo recupero. E ora, anche se sono riuscito a salire la montagna dei miei sogni da bambino, non voglio mollare, l'esercizio fisico è il solo che può riportarmi "quasi" com'ero prima». Un'impresa nell'impresa, risalire quella china prima ancora che le vallate pakistane nella spedizione veneta, che dopo un primo tentativo dell'anno scorso non riuscito a causa del gran caldo che rendeva inaccettabilmente rischiosa la parete, ci ha riprovato due mesi fa accogliendo anche un altro vicentino, Tarcisio Bellò.

I momenti difficili

Bonaiti, quali sono stati i momenti più difficili? «Le giornate di attesa al campo base con tempo bellissimo ma nessuna spedizione (ai piedi del Nanga, oltre a numerosi gruppi stranieri c'era anche Marco Confortola, ndr) che si decideva a puntare verso l'alto. Friggevo dalla voglia di mettere alla prova il durissimo lavoro di recupero fisico ma anche mentale che ho fatto. Poi chiaramente i cinque giorni della salita decisiva, i tratti in cui tra le nubi e la neve non vedevo più i compagni davanti o dietro di me, prima lungo la corda predisposta dagli sherpa poi in terreno aperto e ciascuno alle prese solo con il ghiaccio e la roccia, ma nelle difficoltà, soprattutto quando si è molto in alto, mi trovo bene. Si procede ad una lentezza a volte esasperante e scoraggiante, però io mi ci sento a mio agio, se il tempo non fa brutti scherzi». Eppure c'è stato spesso anche questo, in quei cinque giorni sulla montagna, come sempre senza l'ausilio dell'ossigeno e neppure dei portatori. «Usare le bombole di ossigeno oppure farne a meno sono proprio due "sport" diversi. Usandolo si riduce sensibilmente la fatica, si va più veloci e dunque si riducono i rischi dell'alta quota e del meteo, si è meno soggetti a inizi di congelamento perché il sangue ha una fluidità più normale».

Esperienza terribile

È questo un terreno nel quale si può anche incontrare la morte. «È quanto ci è successo, infatti, nel corso della tremenda notte trascorsa al campo 4 prima dell'attacco finale alla cima. Il vento fortissimo ci aveva strappato una tenda, per trascorrere quelle ore al riparo abbiamo dovuto stringerci in cinque in una tenda da tre. In quella situazione, compressi praticamente uno sopra all'altro, abbiamo saputo di una richiesta d'aiuto da un gruppo polacco che stava scendendo dalla vetta. Quello di loro che era più attardato già da molto aveva sintomi pessimi, un dramma al cui epilogo non avevamo alcun modo concreto di tentare di opporci e che si stava compiendo a poca distanza da noi. Esperienza terribile. Quando alla fine, dopo i miei compagni Vielmo, Annovazzi e l'amico argentino Juan Pablo Toro che già era con noi lo scorso anno, anch'io mi sono trovato sulla cima, ho pensato a Messner che da qui scendeva su un versante ignoto dopo aver perso il fratello».

L'abbraccio

Una discesa inizialmente solitaria. «Verso il campo 4 lo è stata fino a quando non ho raggiunto Juan e Mario, dopo la breve sosta sul punto più alto, fantastica, con il sole che aveva squarciato le nuvole e senza eccessiva preoccupazione, anche se sapevo che avrei incontrato il buio prima di giungere alla tendina. Dove però non sapevo che ci aspettava un'altra folle notte stipati in cinque. Meraviglioso e indimenticabile infine l'abbraccio con i due esperti pakistani che dal campo base ci sono venuti incontro per guidarci, ancora al buio della terza notte sulla parete e dopo 18 interminabili ore di discesa, fuori dal pericoloso labirinto del ghiacciaio». 

Ultimo aggiornamento: 1 Agosto, 10:11 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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