La storia del professor Gino Gerosa: «Ho sbagliato aula e sono diventato cardiologo»

Lunedì 7 Febbraio 2022 di Edoardo Pittalis
Gino Gerosa
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PADOVA - La gente crede che tutto stia nel cuore: il pianto e il riso, il dolore e la gioia. Lo pensava anche il padre di Francesco Busnello, lo studente trevigiano il cui cuore permise il primo trapianto in Italia. Oggi donare un organo è patrimonio comune, ma allora era il 1985 dire di sì era una cosa difficilissima, occorrevano una grande forza mentale e un'etica assoluta. Il signor Busnello aveva tutto questo e quando andò a trovare in ospedale Ilario Lazzari, l'uomo col primo cuore nuovo, era convinto di scorgere nel trapiantato qualcosa del figlio. Forse nello sguardo, forse nell'espressione del viso, sicuramente nel cuore. Invece, niente di tutto questo nel volto del falegname di Vigonovo, felice come poteva essere un uomo che si sentiva resuscitato.
«Realizzai che essere intimo di una persona non risiede nel cuore», ha raccontato tanti anni dopo al professor Gino Gerosa, 65 anni, che oggi dirige il Centro di Cardiochirurgia di Padova e il Programma Trapianti intitolato a Vincenzo Gallucci, il pioniere dei cuori nuovi in Italia. Qui si eseguono tre trapianti al mese. Tre figli (Edoardo, Carlo Andrea, Filippo) che sono nati e hanno studiato in Inghilterra, una passione fresca per il golf, una più antica per la vela: il professor Gerosa ha appena restaurato Bettina, barca in legno del 1958.
«Se potessi rinascere farei il regista.

Ho fatto il medico perché mi piace la gente. Se vado in treno ascolto le persone e immagino la storia che c'è dietro».


Professor Gerosa, Totò diceva che i ricordi sono i capelli bianchi del cuore
«Sono nato a Rovereto, ma per il lavoro di mio padre Francesco non ho mai vissuto per più di tre anni in una stessa città d'Italia. Girare l'Italia mi ha permesso di conoscere realtà nuove e di confrontarmi da ragazzino con ambienti diversi, ricostruire amicizie e percorsi scolastici. Ho un fratello più grande, Carlo, è appena andato in pensione da generale dei Carabinieri. Lui voleva andare alla scuola militare della Nunziatella a Napoli, mamma Adriana gli ha risposto che sarebbe stata troppo dura. Due anni dopo l'ho chiesto io e mamma ha deciso: Quello è il posto per te. Era il 1973».


Perché proprio una scuola militare?
«Un po' per emulare mio fratello che poi il carabiniere lo ha fatto davvero. Un po' perché credo che il caso sia sempre determinante. A Roma incontro Paolo Galvaligi, figlio del generale che sarà ucciso dalle Br, e Mario Parente attuale dirigente dei Servizi Segreti, senza di loro avrei saltato le visite mediche al Celio e non sarei mai stato ammesso: sono arrivato settantanovesimo su 80! Ancora il caso: dopo la maturità avevo fatto domanda per l'Accademia di Sanità Militare a Firenze come ufficiale medico, ma si è persa la domanda e non mi hanno mai chiamato per il concorso. Così mi sono iscritto in Medicina a Padova. Era il 1976, anni molto caldi nell'ateneo padovano. Gli autonomi facevano irruzione nelle aule, interrompevano spesso le lezioni di chimica del gesuita padre Ciman. Entravano, gettavano le immondizie sulla cattedra e uscivano. Lui col nostro aiuto ripuliva e riprendeva le lezioni senza batter ciglio».


Sempre il caso a indirizzare la sua vita?
«Eccolo di nuovo. Seguivo i corsi a Verona quando una mattina ho sbagliato aula, c'era il professor Casarotto che illustrava la specializzazione della cardiochirurgia: è bellissima, diceva, ma chi la sceglie non ha vita privata. In quel momento ho scelto. Per specializzarmi ho seguito a Londra Donald Ross, pioniere della cardiochirurgia, sudafricano trasferitosi in Inghilterra. In Italia era conosciuto per aver operato al cuore il grande giornalista Enzo Biagi. A proposito di ricordi, sono con Ross a un convegno dove c'è Barnard, l'uomo del primo trapianto di cuore: i due erano stati compagni all'università di Città del Capo e Ross aveva preso la medaglia di migliore del corso. Tanti si sono avvicinati per farsi fare l'autografo da Barnard, lo faccio anch'io ma voglio pure la firma di Ross e ognuno dei due scrive sulla firma dell'altro. Ho mostrato quel foglio nel 2017, quando sono stato invitato a Città del Capo per i 50 anni del primo trapianto. Poi ho parlato del coraggio chirurgico: è l'etica che fa la grande differenza, la responsabilità di fare del bene a qualcuno. È incredibile come i due vecchi compagni di corso abbiano fatto due interventi da pionieri nello stesso anno, il 1967: Barnard col trapianto di cuore, Ross col primo trapianto della valvola polmonare. Non erano due pirati, avevano proprio il coraggio chirurgico».


Cosa faceva mentre a Padova Gallucci preparava il primo trapianto di cuore?
«Per guadagnare facevo guardie mediche. Nel 1985 ero a Fiera di Primiero, una notte di febbraio una mamma mi telefona disperata: il figlio di dieci anni era tornato nella neve ed era caduto con le convulsioni. C'è una luna piena incredibile, la baita con una finestrella accesa si vede da lontano, il bambino arriva all'ospedale di Feltre in condizioni disperate per un'emorragia cerebrale. L'indomani mattina mi informano che sono arrivati da Roma per prelevare l'organo per il primo trapianto pediatrico. Vent'anni dopo qui al Centro viene una coppia e scopro che sono i genitori di Fiera di Primiero. A volte le vite delle persone s'intersecano in un modo drammaticamente affascinante. È stata un'emozione pazzesca».


Quando arriva a Padova?
«Nel 1987 il primario di Treviso Carlo Valfrè mi ha offerto un posto. Doveva operarsi di bypass il presidente degli industriali che aveva chiesto che a fare l'intervento fosse proprio Gallucci. A Treviso mi sono reso conto di essere l'ultimo della fila e sono andato a Londra da dove mi ha richiamato Casarotto che poi, alla morte di Gallucci, è stato nominato a Padova e mi ha voluto con sé. Nel 2003, con la sospensione di Casarotto, sono diventato direttore del Centro intitolato proprio a Vincenzo Gallucci».


Quanti trapianti fate oggi a Padova?
«In un periodo difficile per la pandemia eseguiamo 35 trapianti all'anno. Siamo anche i primi in Italia nell'impianto di cuore artificiale e ventricoli artificiali. Il primo nell'uso della macchina che consente la sopravvivenza in attesa che il cuore recuperi la sua funzione aspettando il trapianto. Nel 2007 abbiamo fatto il primo trapianto di un cuore artificiale totale in Italia su un paziente. Questo cuore artificiale, alimentato da aria compressa, si chiama Syncardia ed è stato messo a punto negli Usa da un olandese, Kolff, che aveva già sviluppato il rene artificiale. Oggi i cuori artificiali disponibili sono o troppo grandi e troppo rumorosi. Per questo abbiamo pensato di farne uno tutto italiano, ne ho parlato anche con Draghi: in Italia ci sono le competenze, ma occorrono 50 milioni di euro in cinque anni. Deve essere piccolo e silenzioso, una cosa che non c'è in tutto il mondo. Parlando con gli ingegneri della Ferrari proponevo di chiamarlo il cuore di Enzo. Lo scompenso cardiaco determina ogni anno in Italia la morte di 150 mila persone, ogni anno ci sono in lista d'attesa per trapianto mille persone e si eseguono 250 trapianti».


È sempre complicato intervenire sul cuore?
«Noi a Padova abbiamo inventato la definizione di cardiochirurgia microinvasiva, un passaggio evolutivo della cardiochirurgia tradizionale da quando nel 1958 Gibbon per la prima volta ha utilizzato la circolazione extracorporea di un bambino di 12 anni e ha corretto il difetto interatriale. Con quella mininvasiva si corregge senza più aprire lo sterno, però utilizzando sempre la circolazione extracorporea. Con la microinvasiva è possibile correggere alterazioni non solo senza aprire lo sterno, ma con una piccola incisione, non più circolazione extracorporea, e non ferma il cuore perché lo fa a cuore battente».

Ultimo aggiornamento: 12 Febbraio, 14:35 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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