BELLUNO - «Nemmeno l’allora vescovo e futuro papa, Albino Luciani, seppe darmi una risposta: gli chiesi perché la giustizia divina non salvò i quasi 500 bambini del Vajont. Le sue parole furono evasive e questa cosa me la sto portando dentro ancora oggi». Franco De Biasio, nato a Longarone 78 anni fa e oggi residente a Fregona nel Trevigiano, quelle risposte non le ha mai avute. Nel disastro del Vajont perse mezza famiglia: papà Giuseppe, 59 anni, mamma Maria Antonietta Candiago, 51 anni, la maestra elementare del paese, e la piccola Emanuela, sorellina di Franco: aveva solo 11 anni. La famiglia abitava in via Roma a Longarone. «Noi avevamo la casa proprio di fronte alla diga - ricorda Franco - nella strada che va in Val Zoldana. Dopo il disastro non rimase più niente, né un albero né un filo d’erba: quella zona di Longarone venne completamente spazzata via».
IL DESTINO
Franco, poi diventato enologo di successo con una vita di lavoro a Modena, allora 18enne studiava all’istituto Cerletti di Conegliano. «Tornavo i fine settimana - racconta -: è accaduto di mercoledì ed è per questo che io sono vivo». Il destino, così come per la sorella più grande, Maria Pia De Biasio: sopravvisse solo perché quella sera era al cinema a Belluno con l’allora fidanzato, il dottore Paolo Dalla Vestra, poi diventato suo marito. E vivo è anche il terzo fratello, Piero De Biasio, emigrato in Francia da dove apprese quello che era accaduto: «In quelle ore le telescriventi battevano in continuazione “Crollata la diga del Vajont” e lo venne a sapere».
LA NOTIZIA
Ma l’allora 18enne Franco De Biasio, ancora non sapeva nulla. A Conegliano condivideva una casa con altri studenti 4 studenti: «Ci alzammo e alla radio sentimmo: “È crollata la diga del Vajont”. Erano le 7,30 del 10 ottobre 1963. Il preside mi mise a disposizione una macchina e autista per portarmi a Longarone. Ma lì non si poteva entrare e il conducente mi portò a Belluno da mia sorella». È bastato uno sguardo per capire che il resto della famiglia non c’era più: «Ho compreso il lutto vedendola: si stava togliendo lo smalto dalle unghie».
LA TRAGEDIA
«Quel pomeriggio - prosegue De Biasio - con mio cognato siamo andati a Longarone: non si poteva passare, ma lui era medico e doveva portare soccorso. Così siamo andati a piedi da Ponte nelle Alpi. Quando siamo arrivati ho visto la tragedia: non c’era più niente». «Successivamente - ricorda Franco - ci avevano dato il permesso di poter scavare nel punto in cui c’era la nostra casa: aveva sopra 4-5 metri di ghiaia dalle fondamenta. L’unica cosa che è emersa: una parte del bob con cui correvamo. Ho chiesto: coprite tutto». Ma il dolore e lo strazio erano solo all’inizio: «Il corpo di mia sorellina è stato ritrovato a Ponte nelle Alpi. Mia madre l’hanno riconosciuta verso Natale, grazie alla fede con la data di matrimonio che indossava: era una salma trovata a Trichiana, trascinata dall’acqua a una quarantina di chilometri da casa». Il riconoscimento infatti richiedeva tempo. «Il papà? Da una foto sembrava lui, ma non avendo nessun oggetto e era difficile poter dire con assoluta certezza che fosse lui. E sapendo che, una volta riconosciuto veniva archiviata la pratica e non ci sembrava giusto togliere la possibilità a altri famigliari di trovare il loro caro, nel caso non si fosse trattato proprio di mio padre».
L’INCONTRO
L’allora vescovo Luciani nella primavera del 1964 va a celebrare la messa dello studente a Conegliano. «Ha voluto incontrarmi in udienza privata - ricorda Franco -. Aveva un carisma che ti metteva in soggezione. Ma gli feci una domanda: “Parlate sempre di giustizia divina non le sembra che questa volta Dio abbia sbagliato: abbiamo perso quasi 500 tra neonati e minorenni, se succedeva di giorno molti si sarebbero salvati. Le scuole elementari erano rimaste in piedi, molti studiavano a Belluno o a Vittorio”. È rimasto un po’ scioccato da queste mie parole: non aveva la risposta da darmi sono rimasto male».
LA VITA
Franco poi si è sposato e ha trovato un buon lavoro a Modena. Ha due figlie. «Una che è Cortina e fa maestra di sci e l’altra che lavora a Modena». Cosa ha raccontato loro di quanto accaduto? «Le ho portate a Longarone per spiegare il tutto, ma sempre poche parole - dice -. Perché capivano che ogni volta o la commozione o il ricordo mi toglieva la parola, come adesso (la voce si fa rotta dal pianto ndr)».
IL CALCIO
Poi a 55 anni da quella tragedia Franco, che all’epoca del disastro era calciatore militante nel Longarone, trova il modo di buttar fuori tutto quel dolore grazie all’incontro con i calciatori che affrontò nell’ultimo match a maggio 1963.
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