L' "odor di mafia": è sbagliato usare le parole di Borsellino per distruggere gli avversari politici (e lo stato di diritto)

Giovedì 9 Novembre 2023

Gentilissimo Direttore.
non mi dilungo raccontando le vicende che hanno interessato la Misericordia di Venezia, voglio invece soffermarmi su un punto squisitamente morale. Il fatto è, come diceva l'integerrimo Borsellino, che la vicinanza anche superficiale tra politici e mafiosi, è in grado di interferire nella gestione della cosa pubblica. E anch'io come Borsellino sono convinta che dovrebbe essere sufficiente il solo "in odor di mafia" per negare a certi individui di occuparsi di politica e di presenziare ad assemblee politiche locali, nazionali e internazionali. Bisogna aver il coraggio di dire senza paura che la vicinanza di un politico a mafiosi di ogni tipo, rende il politico inaffidabile per la gestione della cosa pubblica. A mio avviso è necessario che le persone che ricoprono un posto pubblico e che sono raggiunti da fatti che destano apprensione, vengano messi da parte anzi, riacquistando uno stile ed una moralità smarriti da tempo, che lascino a chi non ha alcun neo supposto o accertato, di governare il territorio di appartenenza.

Maria Grazia Magagnato
Venezia


Cara lettrice,
so che sarebbe più semplice se dicessi che sono d'accordo con lei.

Ma non è così. E provo a spiegarle perchè. La invito a interrogarsi sul significato di espressioni come "fatti che destano apprensione"? O "neo supposto"? Le chiedo: e se un fatto o una notizia generano apprensione in lei ma non in altri cittadini, come andrebbero considerati? E se il neo è "supposto", cioè non avvallato da alcun fatto concreto, come può diventare un elemento di condanna di una persona? E chi dovrebbe avere il potere di decidere se lo è o non lo è? Quanto alle parole di Borsellino che lei cita. le conosco bene, vennero pronunciate durante un incontro a Bassano con alcuni studenti. Ma la declinazione che lei ne fa e l'applicazione che ne suggerisce rappresentano la negazione stessa delle regole dello stato di diritto che sono sempre state l'irrinunciabile punto di riferimento del magistrato siciliano. Il ragionamento di Borsellino partiva da un presupposto: «Vi è stata una delega totale e inammissibile nei confronti della magistratura e delle forze dell'ordine a occuparsi esse sole del problema della mafia». Era il 1989 e il pm con quelle parole denunciava la solitudine dei magistrati che si occupavano di Cosa Nostra. Borsellino chiedeva alla politica del tempo e al resto delle istituzioni di far la loro parte, di assumersi le proprie responsabilità nei confronti della criminalità organizzata, di non nascondersi dietro i formalismi giudiziari e di uscire dall'omertà interessata. Non auspicava certamente una legge della giungla in cui attraverso i vaghi concetti di "vicinanza alla mafia" o di "odor di mafia" si regolassero conti interni ed esterni ai partiti e in nome di una supposta superiore moralità si potessero distruggere gli avversari politici per rimpiazzarli con i propri. Ben sapendo tra l'altro che in questa giungla la mafia si sarebbe mossa assai più a proprio agio delle istituzioni e dei cittadini onesti. Forse sarebbe il caso di ricordare anche cosa diceva Giovanni Falcone: «Bisogna stare attenti a non confondere la politica con la giustizia penale. Altrimenti l'Italia, pretesa culla del diritto, rischia di diventarne la tomba».

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