Perugia, cimiteri devastati per i furti di rame
I FATTI
Secondo il pubblico ministero, a organizzare tutto sarebbe stato proprio l’operaio. Il processo è cominciato qualche giorno fa, cinque anni dopo quei due selfie. È il 2018 quando Mirco Campus, operaio specializzato in riesumazioni e tumulazioni, riceve dall’azienda per cui lavora l’ordine di allargare gli spazi nel cimitero di Bolotana, diventato troppo piccolo. Poco prima era stato il Comune ai chiedere ai parenti dei defunti se volessero cremare le salme oppure a seppellirli in terra, visto che nei colombari non c’era più posto. Il consenso arriva in molti casi e l’azienda si mette al lavoro nel campo santo. Quando a essere riesumata è la salma di una donna morta oltre cinquant’anni - si legge nel capo d’accusa - Mirco Campus si sarebbe messo in posa e fatto scattare la fotocamera del cellulare. A meno di credere a fenomeni paranormali, uno dei due soggetti, la donna, non poteva essere certo presente a sé stessa era infatti impossibile che riuscisse a stare in piedi e avesse addirittura voglia di fumare, al punto da avere una sigaretta in bocca. Accanto a lei, con indosso ancora l’abito del giorno del suo funerale, proprio il necroforo invece sorridente e bello vispo nello sguardo. Non basta, ecco poi una seconda foto shock. Stavolta nell’inquadratura, la salma è all’interno della bara, vestita di tutto punto, ma sul petto ha qualche bottiglia di birra (marca e modello sono dei giorni nostri) al posto del crocefisso. Sullo sfondo della scena, ancora volta, c’è sempre lui, il becchino. Le foto cominciano a girare sui telefonini di alcuni compaesani finché i selfie finiscono anche sullo smartphone di un assessore, che denuncia il fattaccio ai carabinieri.
LE INDAGINI
Scattano le indagini, che portano all’identificazione dell’attore protagonista e poi al suo rinvio a giudizio per vilipendio di cadaveri. Qualche giorno fa gran parte della vicenda è stata ricostruita in Tribunale primi testimoni e il 6 novembre ci sarà una nuova udienza. Secondo l’avvocato difensore dell’imputato quelle foto sarebbero frutto di una «necessità tecnica». A confermarlo anche il datore di lavoro dell’operaio specializzato. Sarà anche vero, ma allora perché poi gettarle in pasto ai social? È stata proprio questa la prima domanda che s’è fatto il pm all’inizio del processo in Tribunale, e una risposta ancora non l’ha avuta da chi in aula s’è presentato comunque a capo chino. Forse s’è pentito, l’imputato, o come minimo è stato piegato dal peso della vergogna. Sempre che l’invocata “necessità tecnica” non finisca per essere la sua unica e possibile via di fuga da una condanna da un anno a tre anni di reclusione.
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