La politica sfiduciata/ Gli scenari possibili se il premier è scelto dal popolo

Venerdì 22 Luglio 2022 di Ferdinando Adornato

«Il Parlamento ha votato contro l’Italia»: le lapidarie parole ) con le quali Enrico Letta ha commentato l’addio di Mario Draghi sono una felice provocazione sulla crisi del nostro sistema. Lo stesso Draghi, del resto, aveva fondato sulla grande richiesta popolare di restare a Palazzo Chigi la sua decisione, dopo le iniziali resistenze, di proporre un “nuovo patto”. 
Ovviamente è partita la polemica: così Draghi non rispetta il Parlamento! Evoca i pieni poteri! Il premier ha subito ammorbidito tali preoccupazioni. Eppure non c’è dubbio che, alla fine di questi convulsi giorni, sia rimasto aperto un grande interrogativo: il Parlamento rappresenta davvero il popolo? E’ ancora un’autentica espressione del volere degli italiani? Si tratta di una questione centrale per il prossimo futuro della nostra democrazia che la classe politica farebbe bene a non sottovalutare.
In una Repubblica parlamentare come la nostra, la fonte di legittimazione dei governi risiede, come è noto e come è ovvio, nelle assemblee elettive. Esse sono certamente l’espressione della volontà popolare perché frutto di un voto liberamente espresso. Sul piano formale è sempre stato così. Sul piano sostanziale, però, le cose, si sono fatte via via più complicate. Questo modello, infatti, si è sposato felicemente con la realtà fino a che i partiti italiani erano partiti di massa, collettori permanenti, sul territorio e nell’opinione, di consenso sociale e visioni del mondo. 
In altri termini, la stabilità politica di fondo del sistema era garantita dai partiti. Essi potevano anche decidere, come succedeva nella Prima Repubblica, di cambiare un governo all’anno, ma la continuità istituzionale restava in ogni caso solida. 
Oggi non è più così. L’estinzione dei partiti di massa ha gradualmente ceduto il passo a una sorta di “fluidità politica” di appartenenze e leadership fino a che, fallito anche il claudicante “bipolarismo all’italiana”, è risultato sempre più difficile, per il Parlamento, dimostrare di essere un’efficace sorgente di legittimazione dei governi. Anzi, l’instabilità è diventata la norma. Tanto che, nel giro di un decennio, per ben due volte, prima con Monti e poi con Draghi, l’Italia ha avuto bisogno di due “uomini della Provvidenza” per salvare il Paese da crisi assai profonde, “sospendendo” d’autorità la dialettica parlamentare.
Naturalmente, sia il primo che il secondo, sono stati appoggiati con diffidenza e, in fondo, vissuti come “corpi estranei”(a Draghi è stato anche negato l’approdo al Quirinale). 
Ma se anche volessimo tenere conto solo dell’ultima legislatura, il quadro si farebbe ancora più fosco. Tre governi bruciati. Il primo, quello gialloverde, era nato unendo forze che si erano presentate in schieramenti opposti. Così anche il secondo, quello giallorosso. Per altro, il presidente del Consiglio era sempre lo stesso! Appare evidente come, in entrambi i casi, il rapporto tra volontà degli italiani e scelte del Parlamento, si è mostrato, a dir poco, assai labile. 
Il culmine è stato poi raggiunto con il “suicidio assistito” del terzo governo, il più autorevole, anche a livello internazionale, che l’Italia avesse mai messo in campo. E’ stato così definitivamente celebrato, in pompa magna, lo scollamento tra gli interessi del Paese e la logica delle tattiche parlamentari. 
E’ ormai usuale che i partiti, di fronte a tali problemi, puntino l’indice contro la legge elettorale. Si tratta, purtroppo, di un falso alibi. Con la proporzionale, infatti, è ancor più facile immaginare, stante la debolezza strutturale dei partiti (nessuno dei quali supera il 20%) che per fare un governo sarebbe necessario unire forze assai distanti per programmi e visione del mondo. 
In definitiva le coalizioni, ma in fondo anche i partiti, sono ormai solo “cartelli elettorali”, assemblati non per coerenza progettuale ma per guadagnare un voto in più. Così né le une né gli altri possono essere fonte certa di legittimazione dei governi e, soprattutto, garanzia di forza e di stabilità politica. Chi auspicava le elezioni anticipate è davvero così sicuro di poter dar vita, a ottobre, a un governo stabile e autorevole? 
La conclusione è una sola: se si vuole tentare di ricostruire un circuito virtuoso tra gli italiani e le istituzioni bisogna arrivare al più presto all’elezione diretta del Capo dell’esecutivo, con il semipresidenzialismo alla francese o attraverso l’idea, più volte ventilata, del “sindaco d’Italia”. 
Molti pensano che l’Italia sia da tempo già matura per una tale svolta.

Del resto è più di quarant’anni che l’esigenza di una Grande Riforma è stata messa in campo. Ma oggi non si tratta più solo di una “preferenza”: si tratta di una necessità. Solo un consenso popolare espresso direttamente può assicurare ai governi quella forza e quella stabilità indispensabili soprattutto in questo tempo critico della storia europea e mondiale. Forza e stabilità che le logiche parlamentari non riescono più a garantire. Ma sapranno partiti sempre più avvitati su se stessi a farsi protagonisti di una tale svolta storica?

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