«La scrittura ha molto in comune con la follia.
Non ha mai avuto paura, in quell’istituto psichiatrico?
«No, anzi, lo trovavo eccitante. Mio padre parlava spesso del suo lavoro, e io era affascinato da quello che faceva, dai pericoli che correva, dalle complicazioni che derivavano dal dirigere un istituto del genere, con tantissimi pazienti difficili».
Qual è stata la principale lezione che ha imparato da suo padre?
«Che la malattia mentale non deve mai essere confusa con l’azione criminale di chi ne soffre. È una malattia, e in quanto tale richiede trattamento medico e psichiatrico. Non deve essere motivo di punizione, anche se il paziente resta recluso, per proteggere gli altri».
Come è arrivato a scrivere romanzi, a partire da quell’esperienza? E quanto mette di sé nei suoi libri?
«È impossibile rispondere. Broadmoor e mio padre hanno formato la mia personalità, la mia immaginazione. E da questa sono scaturite le mie storie di finzione. Sarei diventato lo stesso uno scrittore senza Broadmoor? È possibile. Ma quelle esperienze giovanili mi hanno stimolato molto, quando ho cominciato a scrivere. Erano così potenti, spesso anche eccitanti, così piene di violenza e di pericolo».
Come è stata la sua esperienza con Cronenberg?
«Ho imparato molto da lui sulla disciplina necessaria per scrivere sceneggiature. Ne ho scritte anche altre, oltre a Spider, che non sono mai entrate in produzione. Il mio primo amore è la narrativa, l’arte del romanzo. Cronenberg era una persona molto amabile, un vero artista dell’arte cinematografica. È stato un privilegio poter lavorare per lui».
Quanto devono gli scrittori a Freud?
«Le idee del padre della psicanalisi hanno ispirato molti autori, e altri artisti creativi, e questo perché Freud capiva i segreti della natura umana, anche nelle sue manifestazioni più oscure».
Cosa rende storie come “Dottor Jeckyll e Mr Hyde” e “Frankenstein” dei capolavori della letteratura gotica?
«Due cose. La prima ovviamente è che sono spooky, sinistre, e quindi trasmettono un senso di orrore, di trasgressione e di violenza. Ma a renderle persistenti nella nostra memoria, e a turbare i nostri sogni, interviene il fatto che spesso raccontano la verità della natura umana, ovvero la potenzialità insita in ciascuno di noi di compiere azioni malvagie. Sono fantasie, certo, ma recano in sé il seme delle possibilità umane. Jekyll e Hyde, per esempio: una creatura dalla doppia natura, che diventa a tratti innocente, oppure terribilmente malvagia. Simili contraddizioni suscitano una reazione di orrore, certo, ma nessuno di noi dubita dell’esistenza di persone con doppie o multiple personalità. Molte forme di malattie mentali estreme hanno queste caratteristiche».
Anche Dracula è un mito che non conosce fine. Perché?
«È un altro esempio di storia del genere. Dracula viene spesso descritto come una persona elegante, piacevole, e la sua vera natura viene fuori soltanto quando sente il richiamo del sangue. Allora vediamo la sua trasformazione - la doppia natura - e questo ci affascina, perché mina il nostro senso di fiducia nei confronti dell’umanità».
E perché troviamo tanti zombie, nei film e nei romanzi di questi ultimi decenni?
«Dracula e gli zombie hanno in comune la stessa doppiezza che troviamo così profondamente inquietante. Questo probabilmente ha radici nella prima infanzia, quando l’incubo, il cane che abbaia, la caduta da un albero – migliaia di shock che colpiscono il bambino – sono vissuti come intrusioni inaspettatamente violente e orribili in un mondo sicuro e buono».
Nel suo libro c’è anche spazio per Moby Dick...
«Melville è il più grande, perché il suo mostro ha il potere di muoverci a simpatia. È un’enorme, potente assassina, quella balena, e tuttavia abbatte le nostre difese, perché fa parte della natura, e l’uomo la sta perseguitando, cerca di ucciderla per la sua carne, il suo olio, il suo grasso. È ovvio che ottenga tutte le nostre simpatie. Nella sua grandezza, è magnifica: lasciate che viva, è la natura ed è pura».
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