Chiara Pavan
CHIARA LETTERA di
Chiara Pavan

"Ozark", quando il male non offre vie di scampo

Domenica 15 Maggio 2022 di Chiara Pavan
Jason Bateman e Laura Linney protagonisti di "Ozark"

«Così ha inizio il male», dice Amleto alla madre davanti al cadavere di Polonio. Ed è proprio in quel momento, in fondo, «che il peggio resta indietro». Nell’universo shakespeariano di “Ozark” il male germoglia, cresce e si dilata, obbligando ogni personaggio a superare il proprio limite, finché la coscienza si anestetizza, sopraffatta dall’accumulo, sfilacciata come le biforcazioni del lago su cui è nata questa splendida serie che si è appena chiusa su Netflix. Quattro potenti stagioni sempre coerenti con se stesse e col proprio filo conduttore, magnificamente girate in riva a quei laghi artificiali creati in Missouri negli anni ‘30 che sembrano un mondo idilliaco per vacanzieri. Un racconto nero, spietato e senza lieto fine che segue la lotta per la sopravvivenza, che poi confluisce in lotta per il potere, di una “normale” famiglia americana, i Byrde, costretta riciclare denaro per un feroce cartello messicano del narcotraffico. Dapprima c’è solo il padre Marty, lo straordinario Jason Bateman, così amabile e pacato ma al tempo stesso abile e freddo calcolatore nella sua lenta e ineluttabile trasformazione; si unisce la moglie Wendy, la luciferina Laura Linney, una vulnerabile e spaventata Lady Macbeth capce di spingersi sempre oltre ogni soglia di moralità. Infine i due figli adolescenti, Charlotte e Jonah, inizialmente vittime sacrificali ma poi degni eredi di tanti genitori.

 

LO SGUARDO

“Ozark” è la storia di “un’incoronazione” degna delle tragedie di Shakespeare, con i vincitori che camminano incuranti sui cadaveri dei vinti, dove esiste solo una sottile e impalpabile barriera che separa il male minore da un male più grande, assoluto, davanti al quale la scelta sembra sempre obbligata. Come accadeva già in “Breaking Bad”, “Ozark” saggia il limite massimo cui i personaggi sono costretti a spingersi, abbassando di volta in volta la loro soglia di percezione del male, mettendo a tacere anima e cuore, fingendo di non vedere ciò che è sbagliato, immorale, terribile. Arrivando persino a sacrificare persone care nel nome di una sopravvivenza che costringe poi a ulteriori scelte, ancora più terribili delle precedenti. Per quattro stagioni “Ozark” ha esplorato queste trasformazioni, guidando coerentemente i diversi personaggi verso il proprio “lato oscuro”, verso l’unico approdo possibile, il baratro. Da quel luogo idilliaco in riva ai laghi, grande allegoria di questa serie che sotto il calmo luccichio dell’acqua nasconde i fondali più neri delle coscienze, “Ozark” ribadisce di volta in volta che tutto ciò che semini ti verrà restituito. Lo sanno bene i Byrde, “vincenti” per astuzia sulle famiglie che hanno incrociato lungo il loro cammino: come gli Snell, distrutti dall’incoscienza e dalla follia di Darlene, e come i Langmore, reietti per generazioni, cui sopravvive soltanto la solitaria e sfacciata Ruth, dapprima allieva di Marty Byrde e poi creatura ribelle destinata agli abissi come gli altri (magnifica Julia Garner, capace di donare alla sua eroina forza e fragilità, aggressività e malinconia).

DI PADRE IN FIGLIO

Perché la regola aurea di “Ozark”, come insegnano molti progetti Usa, è che i peccati dei padri si ripercuotono nei figli. Non sfuggono alla maledizione Ruth Langmore e suo cugino Wyatt, e non possono scappare al loro destino neppure i giovani Byrde, la prole “condannata” a vincere e a silenziare i drammi di coscienza sull’altare di un male “minore”. Così nel climax della stagione conclusiva, dove già ogni personaggio si è spinto ben oltre il possibile, “Ozark” tira le fila di ciò che è stato, lasciando immaginare allo spettatore quello che verrà. L’ultimo episodio (diretto dallo stesso Bateman), visionario e anche luminoso nella sua cupa ferocia, si chiude con un dialogo folgorante che sintetizza, in poche parole, l’assoluto cinismo del nostro mondo, ostaggio di potere e denaro. «Voi non vincerete - dice ai Byrde il poliziotto che li ha smascherati - non diventerete i Koch o i Kennedy o qualunque altra fottuta elite cui credete di appartenere. Il mondo non funziona così». Per un attimo lo spettatore quasi ci crede. Ma l’ultima parola spetta a Wendy Byrde, che gela ogni speranza di redenzione. «Da quando?». E’ lei, la fredda calcolatrice dalla moralità indecifrabile, la vera regina dell’ultima stagione, l’incarnazione del predatore umano capace ogni volta di giocare d’anticipo, sapendo sempre dosare le proprie carte; politica, crimine, polizia, Cia, narcotraffico, familiari, amici. Nulla è impossibile. Tutti, in fondo, hanno un prezzo.

Ultimo aggiornamento: 05:00 © RIPRODUZIONE RISERVATA