Chiara Pavan
CHIARA LETTERA di
Chiara Pavan

Vitaliano Trevisan: «Scrivere? Una questione di vita»
I primi tre "non romanzi" nella "Trilogia di Thomas"

Domenica 7 Gennaio 2024 di Chiara Pavan
Vitaliano Trevisan è scomparso due anni fa

«Abbiamo davanti agli occhi tutti gli indizi, continui piccoli segnali, piccoli bigliettini ci vengono di continuo infilati in tasca, parole ci vengono bisbigliate all’orecchio, ma ci rendiamo conto, quando è troppo tardi, che siamo stati ciechi e sordi... Dopo, solo dopo, quando ormai è troppo tardi, qualcuno si accorge che te ne sei andato, senza salutare e senza lasciar detto niente». Vitaliano Trevisan se n’è andato giusto due anni fa senza dire niente o salutare, ma i bigliettini, come già scriveva in “Un mondo meraviglioso”, li aveva lasciati nelle nostre tasche di lettori, romanzo dopo romanzo, pagina dopo pagina, pensiero dopo pensiero. Implacabile e urgente, diretto e feroce come sa esserlo chi vive e brucia tutto sulla propria pelle. A due anni dalla scomparsa, Einaudi pubblica il 9 gennaio in un’unica edizione, i primi tre “non romanzi” dello scrittore vicentino, “La Trilogia di Thomas”, con una postfazione di Emanuele Trevi. E rileggere ora tutto d’un fiato “Un mondo meraviglioso” (1997), “I quindicimila passi” (2002) e “Il ponte un crollo” (2007), anche in ordine sparso, significa ritrovare uno scrittore gigantesco, all’epoca forse non percepito come tale, e nello stesso tempo riabbracciare l’uomo spigoloso e complicato che è stato, fragile ed esposto, caparbiamente sincero al limite della brutalità. Un autore potente capace di inchiodare il lettore alla pagina ancorandolo a parole che, a dispetto di quanto confessava ne “Il Ponte”, non si fanno « o». Nessuna scappatoia, Trevisan sapeva arrivare al bersaglio, spingendoti a inabissarsi con lui, senza protezione, in un mondo che meraviglioso proprio non è. Un mondo che Vitaliano non ama, ma in cui si cala dentro pur sentendosi un estraneo. «Non sono affatto fuori dal mondo, sono piuttosto in un altro mondo.... Sono solo, non ho nessuna nave, niente equipaggio, niente di niente. Solo».

IL CORPO

Uno scrittore-corpo assoluto, non a caso anche attore, per il quale è difficile separare la vita dalla letteratura: «Esiste un altro punto di vista che non sia il punto della scrittura? C’è qualcosa che non sia scrittura?» si chiedeva in “Un mondo meraviglioso”. Anzi, «scrivere o non scrivere è una questione che implica per me il dilemma vivere o non vivere». Scrivere, per lui, è come respirare. Lo ribadisce all’amico Giulio Mozzi «a cui piacciono le mie cose e mi sta aiutando a trovare un editore» (“Mondo meraviglioso”), e all’allieva dello scrittore padovano che incautamente gli domanda “perché scrivi?” «Perché respirate? Chiesi allo scrittore e alla sua allieva, nello studio dello scrittore. D’altronde, non si può mica pretendere che uno risponda seriamente a una domanda del genere». Scrivere per non morire. Scrivere e contare i passi per riempire il senso di vuoto e di morte che opprime. Scrivere per «tenere sempre dietro» il pensiero del suicidio. In fondo, «la scrittura ha sempre un conto in sospeso con la morte».

GLI ARGOMENTI

Antieroe moderno che non ci sta e che non ha altre armi per ribadire il proprio rifiuto se non la scrittura e le proprie nevrosi, Vitaliano Trevisan scrive seguendo temi ricorrenti – la malattia, la morte, la famiglia, il territorio – ma riprendendoli in modi diversi. La “trilogia di Thomas”, col suo omaggio ai pantheon di modelli che spaziano dall’amatissimo Thomas Bernhard a Samuel Beckett e Pierpaolo Pasolini («La scrittura è inevitabilmente influenzata da tutte le altre scritture» osserva nei “Quindicimila passi”) fino alla pittura di Francis Bacon alla musica di Keith Jarrett, rivela lo stretto legame con la musica, con lo “standard” jazz: quello di Trevisan è un monologo fluviale, ossessivo e ipnotico che oscilla appunto jazzisticamente tra scatti improvvisi, assoli, pause inaspettate, ritorni e riprese. C’è il tema frequente della morte e del suicidio, cullato come via di fuga nei momenti di più nera disperazione, anche perchè «vivere pensando alla morte è un esercizio di equilibrismo»; c’è la famiglia asfittica e anafettiva che non dà via di scampo; c’è un territorio malato e tossico, il nordest, cui si affianca il paesaggio fisico e sociale del vicentino come metafora dell’intero paese da cui voler scappare.

LE QUESTIONI APERTE

E poi il desiderio impossibile di fuga e di sparizione, il disagio psichico vissuto con la lucidità di un referto medico («Io sono malato e non posso fidarmi delle conclusioni alle quali arrivo» scrive ne “Il Ponte”), ma il suo pensiero, costantemente in movimento, gli dà la possibilità di andare avanti, di vedere, di sentire ciò che gli scorre accanto. Osservando con la lucidità spietata di un entomologo le periferie diffuse, le città popolate di «cadaveri convinti di essere vivi, città di morti che camminano e che si danno da fare come se fossero vivi, come del resto anche io probabilmente» (“Mondo meraviglioso”), in un «groviglio inestricabile di strade che continuano ad allungarsi passando sopra o sotto altre strade boschi, valli o paesi e città, corsi d’acqua, asfalto», in un’isteria urbanistica e architettonica che ci «assorda e squilibra» (“Quindicimila passi”). E l’uomo? Si abitua a tutto, «perché siamo più malleabili di quanto siamo disposti ad ammettere». Il mondo, allora, non è mai stato davvero meraviglioso. O forse «è meraviglioso, siamo noi che suoniamo male, abbiamo sempre suonato male e suoniamo sempre peggio». 

Ultimo aggiornamento: 21:44 © RIPRODUZIONE RISERVATA