Lo hanno amato tutti.
Coerenza e fedeltà, lo hanno amato tutti
Sì, il Cagliari di quello scudetto che sapeva di miracolo come appaiono certe imprese che appartengono a uomini è stato la consacrazione di “Rombo di tuono” come lo aveva ribattezzato Gianni Brera, azzeccandoci mica come l’Abatino Rivera che fu di quegli anni. Fu uno scudetto che piacque a tutti, perché non l’aveva vinto il nemico della porta accanto. Ma è la maglia azzurra, i 35 gol in 42 volte che sono il suo record, quei gol nei quali scatenava la potenza e la rabbia, la grama infanzia e la nuova gloria, il ragazzino che era stato al quale qualche campione negò l’autografo, e lui mai ne negò uno e poi mai un selfie quando i gusti e i gadget cambiarono. E quando cambiò il calcio. Riva non era di quei campioni che rincorrevano ai suoi tempi il dollaro e di quelli che ai tempi nostri sono attratti dall’oro nero come le gazze dall’oro vero.
Lui no. Lui non fece neppure, al cinema, quel Francesco d’Assisi che gli propose Franco Zeffirelli, mica come adesso che te li ritrovi in una sit-com, in una serie, in uno spot, in una clip. Lui, “Rombo di tuono”, al massimo è stato il protagonista di un documentario di Riccardo Milani, che ha il cielo nel titolo e fa ancora battere il cuore, come faceva Gigi quando aveva il pallone a tiro, e che tiro! Ci si è pure spezzato le gambe più d’una volta: qualche avversario gliela spezzò, qualche altro lo vide soltanto crollare sull’erba, e l’urlo lo sentimmo tutti. Come tutti sentimmo quel “no” che disse alla Juve, la Juve dell’Avvocato, la Juve di Boniperti, la “razza padrona” di quei tempi. Eppure un ragazzo che aveva lasciato Leggiuno allampanato e triste, seppe resistere e fece vincere l’amore per quel suo calcio, per quella terra di Sardegna che non gli era spettata alla nascita ma in cui si ritrovò, schivo, silenzioso, amatissimo e però lasciato alla sua vita, quella terra e quella gente in cui si sentiva protetto e difeso, e lui, che le difese era abituato a scardinarle, lì invece si rintanò. Felice.
Poi, quando carne e muscoli erano forse disperatamente segnati, rimasto a Cagliari e al Cagliari fino alla retrocessione (lontani i tempi con Manlio Scopigno), non rimase mai estraneo dall’azzurro che ne aveva fatto il campione di tutti, perché questo è stato, l’Italia pallonara, cioè l’Italia tutta, unita più di quanto non fosse riuscito nemmeno a un altro uomo d’isola, Giuseppe Garibaldi.
Diventò dirigente dell’Italia, Riva, e furono mondiali di continuo, talvolta perduti chissà perché (le notti magiche che furono stregate), ma tal’altra, invece, indimenticabili, una per tutte “il cielo sopra Berlino”. Ha sempre parlato poco, Riva, che pure chissà quante ne aveva da dire: spalancava la porta avversaria e tanto bastava, poi il resto era il suo mondo. Raccontava d’aver passato una sera genovese con Fabrizio De André, un altro sardo d’animo e di scelta, e che tacquero entrambi per un bel po’, forse fumarono, poi parlarono chissà quanto senza smettere mai. De André gli regalò una chitarra, Gigi una maglia. A noi tutti e due hanno regalato emozioni. Il resto sono numeri, presenze, gol, trofei. Ma le emozioni non ne tengono conto. Era un mancino: il piede buono dalla parte del cuore.