Pizzul, ottant'anni nel pallone

Lunedì 19 Febbraio 2018
Pizzul, ottant'anni nel pallone
L'INTERVISTA
Che effetto fa a Bruno Pizzul un mondiale di calcio senza l'Italia?
«Una sensazione di dispiacere, ma in qualche modo non inattesa: anche se l'ultimo atto - con la Svezia - è stato sfortunato, era la conseguenza di una situazione che durava da anni. Si era capito che la Nazionale non era competitiva in campo internazionale, abbiamo fatto fatica con tutti. Occorre ripartire dai settori giovanili». Bruno Pizzul, nato a Udine, 80 anni il prossimo 8 marzo, il telecronista di calcio più popolare della Rai, dove ha lavorato dal 1969 al 2002; per decenni voce della Nazionale. Un passato da calciatore in serie B interrotto da un infortunio al ginocchio. Ha raccontato agli italiani nove Mondiali e nove Europei.
«Certo mi è mancato il Mondiale vinto e anche l'Europeo vinto, una volta ero in anticipo e un'altra in ritardo. Avrei volentieri gridato anch'io Campioni del mondo!, ma l'unica volta che mi è davvero spiaciuto è stato nel 1990: raramente ho raccontato una Nazionale così forte e bella da vedere come quella di Vicini. Anche perché la nostra squadra, alla quale vogliamo tutti bene, non è che abbia mai divertito, la sua forza è sempre stata quella di non far giocare gli altri».
La prima telecronaca?
«La prima telecronaca è arrivata qualche giorno dopo l'assunzione alla sede Rai di Milano, dovevo fare lo spareggio per le finali di Coppa Italia tra Juventus e Bologna che giocavano sul neutro di Como. Mi presentai alle dieci del mattino, Beppe Viola mi convinse ad andare a pranzo, tanto c'era tempo. Ma quando tentammo di raggiungere Como, sulla strada c'era l'intera Brianza bianconera, così sono arrivato in postazione un quarto d'ora dopo. Per fortuna c'era la differita, mi fecero una lavata di capo e mi consigliarono benevolmente di non frequentare Viola prima delle partite. Con Beppe eravamo grandi amici».
Come è nato il Pizzul calciatore?
«Ho vissuto la fanciullezza nel periodo duro del dopoguerra a Cormons, nella zona di Gorizia occupata per 40 giorni dalle truppe di Tito, il IX Corpus. La gente spariva e non se ne sapeva più niente, tanti sono stati infoibati. Famiglie divise che si guardavano con odio. In quel contesto di incompatibilità e di rancore reciproco, il prete del paese riuscì miracolosamente a trovare qualcosa che era stato un pallone. E attorno a quel pallone, all'oratorio, si riunirono tutti i ragazzini e anche le loro famiglie. Ho vestito la maglia della squadra del mio paese e poi della Pro Gorizia, dove aveva giocato Enzo Bearzot. Quando mi ha preso il Catania, mia madre ha posto una sola condizione: che proseguissi gli studi in giurisprudenza. E ho fatto esami a Catania, a Bari, a Napoli, a seconda del mio nomadismo sportivo. Quando ho smesso di giocare, sono tornato a Gorizia. Poi il concorso che è' stata una pesca buona per la Rai, mi sono trovato con Bruno Vespa e Angela Buttiglione».
L'Isontino allora era terra di calciatori?
«Qui vicino a Cormons, c'è San Lorenzo Isontino, meno di mille abitanti: ha avuto nello stesso anno 6 giocatori in serie A: Blason, Toros, i fratelli Orzan... E in A c'era tutto il gruppo dei triestini da Maldini in giù e quelli di Gorizia e quelli dell'Isonzo. Sono nati da queste parti Capello, Reja, un po' più in là Zoff. Era una terra fertile per il calcio italiano, adesso, ahimè!, questo filone si è inaridito. E si è inaridito anche quello della pallacanestro: Gorizia è sempre stata città vocata al basket più che al calcio, la nazionale aveva almeno quattro giocatori goriziani».
E' cambiato molto il calcio?
«E' un calcio condizionato da fattori extratecnici, non ultimo il troppo denaro. Miliardi facili, baruffe tv, interessi contrapposti, diritti che fanno saltare il banco. In quel diluvio di programmazioni televisive che riguardano il calcio, quello che dovrebbe restare il momento centrale cioè la partita è trattato in modo superficiale. Occorre gestire in maniera diversa la didattica dei settori giovanili, uniformando l'insegnamento del calcio, come avviene in Germania».
C'è una sua foto mentre insegue Omar Sivori
«Ero difensore di riserva del Catania in serie B e l'anno che la squadra è stata promossa mi hanno ceduto. Ero uno spilungone, mi chiamavano Watusso, costituivo un'eccezione, oggi tanti sono alti 1,90. Proprio perché ero così voluminoso avevo difficoltà a marcare giocatori piccoli e veloci, ma si marcava a uomo e i centravanti erano grossi come me. Quella foto fu scattata durante un'amichevole tra Catania e Juventus, è stato Sivori a regalarmela alla Domenica Sportiva. Mi chiese: Quanti tunnel ti ho fatto?. Neanche uno, risposi. E lui: Se sapevo che diventavi un giornalista sportivo te ne avrei fatto quaranta!. Era un giocatore capace di cose impossibili, ma irridente con gli avversari.
Il mondiale del Messico 1970
«Sono le partite che mi sono sembrate più belle. Non pensavo di raccontare i mondiali messicani, ero il quarto in mezzo a mostri sacri quali Carosio, Martellini e Ambrosini che era il telecronista della Svizzera italiana. Mi spedirono a Leon nel girone della Germania, di Bulgaria e Perù. Ci fu l'incidente a Carosio, non è mai stato appurato che abbia detto negraccio al guardalinee etiope, certo gliene disse di tutti i colori. Per lui erano ancora roba nostra, faceva radiocronache al tempo di Faccetta nera. Dopo le proteste, la Rai diede a Martellini la finale. Io feci Germania-Uruguay per il terzo posto e fu la più grande rissa tra calciatori che abbia mai visto. Gli organizzatori avevano deciso di dare a entrambe la medaglia di bronzo, per evitare supplementari e rigori, le squadre erano arrivate che non stavano più in piedi. Ma Overath fece gol da trenta metri e gli uruguaiani incominciarono a rincorrere i tedeschi che non erano stati ai patti».
Quello che non avrebbe voluto raccontare?
La strage dell'Heysel. Anziché raccontare una partita di pallone, devi parlare di 39 morti. È inaccettabile. È la mia ferita più grande. Io parlavo, ma non si sapeva niente, eravamo appesi a un filo, arrivavano notizie contradditorie, le facevano filtrare in ritardo, non volevano che si sapesse dei morti. Quella partita non si doveva giocare, era stata organizzata in maniera assurda, erano impreparati ad affrontare una marea di tifosi, ad arginare la violenza.
Cormons si prepara a festeggiare i suoi 80 anni
Ma che merito ho? Sì, quello di essere sopravvissuto. Certo, sono contento, ma non mi sono mai preso troppo sul serio, proprio per non scivolare nella tentazione di sentirmi personaggio. Il mestiere è insidioso, la tv ti dà visibilità e popolarità. Queste manifestazioni mi lasciano imbarazzato, però allo stesso tempo capisco che è un segno di affetto della mia gente. Sono rimasto un ragazzo di paese innamorato del proprio lavoro.
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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